Bhopal e il parco giochi della Union Carbide


Un trasloco, sfighe a catena e qualche problema di salute mi hanno tenuto lontano da Indie per un po’. Solo dopo le prime dieci ore di treno, in una appicicosa notte di monsone, mi e’ tornata la voglia di scattare e di raccontare.


La prima cosa che ti dicono quando vai a Bhopal, e’ di stare attenti a cosa si mangia e si beve. Certo dopo quello che e’ successo 26 anni fa e’ normale. Ammetto che dal primo momento che ho messo il piede fuori dal treno, le scene descritte nel libro di La Pierre di quella notte, mi sono presentate davanti. Diro’ una bestialita’, forse, ma la mia impressione e’ che - come sempre in India - anche questa mostruosa sciagura si e’ riassorbita nel flusso caotico di una citta’ che e’ devastata da un traffico assordante, cumuli di spazzatura, voragini in strada e un’umanita’ che ogni giorno cerca di sopravvivere, nulla di piu’. Certo anche Bhopal diventasse come Losanna (c’e anche un lago e delle collinette qui, l’accostamento e’ perfetto) il suo nome sara’ per sempre legato alla fuga di gas. Come a Seveso.
Appena arrivata sono andata alla fabbrica, che e’ a una ventina di minuti dal centro storico. E’ ancora una zona industriale, la via si chiama anche Union Carbide street, con pessimo gusto, direi, ed’e’costellata di slum. Sulla recinzione ci sono delle scritte dei gruppi di attivisti (gli unici che tengono duro) e poi c’e un murales con una statua di marmo raffigurante una donna e dei bambini, nell’atto di scappare, almeno ho capito io. Il monumento e’ sul marciapiede di fronte, vicino all’ingresso di un’altra fabbrica che non c’entra nulla. Per visitare l’impianto ci vuole un permesso del ‘Collector Office’, che, penso, sia il magistrato locale. Ho provato la tecnica del sono-una-turista-mi-sono-persa, ma non ha funzionato. Le guardie erano sgamate. Quindi ho seguito la trafila burocratica che mi ha portato in un ‘Gas Victims office’ che e’ una delle cose piu’ kafkiane che abbia mai visto. In un cunicolo, pieno zeppo di armadi di ferro arrugginiti e impolverati, nell’oscurita’, sui delle scrivanie ricoperte da tovaglie che sembravano state usate per anni un una trattoria di camionisti, c’erano due impiegati davanti allo schermo di un computer. Giocavano al solitario. Il mio arrivo li ha visibilmente disturbati. Io mi aspettavo una risposta, tipo, compili questo modulo e ritorno tra un mese. Invece no, anche se con un occhio al tappeto verde virtuale, si sono occupati della mia pratica. Nel frattempo mi sono guardata intorno. Negli armadi, allineato contro un muro fuligginoso e pieno di ragnatele, ci sono i nomi di 10 mila vittime. Alcuni faldoni strabordano. Evfidentemente l’ufficio, creato all’epoca’ e’ rimasto e ora funziona da ‘agenzia turistica’. Mi dicono che ogni giorno 2 o 3 persone chiedono di visitare il sito. Sono stupita. Propongo che li facciano pagare un obolo cosi’ da riparare la sedia di paglia sfondata come quella su cui sono seduta io e anche imbiancare l’ufficio. Si mettono a ridere, ma si vede che sono concentrati sul solitario. Ognuno ha un compito preciso, chi registra il mio nome, chi va a fare firmare il permesso dal ‘joint collector’, chi infine mi da la ricevuta. Mentre il collega si occupa di me, gli altri a turno ritornano a davanti al computer attratti come calamite dal gioco. Questo e’ paradossale, che lo fanno con intorno i morti della piu’ grande fuga di gas del mondo. Mi sembra di sentirla quasi la sofferenza uscire da quegli armadi.
La visita avviene dalle 4 alle 5, un omino con i capelli colorati di henne’ mi scorta. L’impianto e’ sorvegliato da 40 persone pagate dallo stato del Madhya Pradesh che e’ anche proprietario dei terreni. Lo avevo visto gia’ in tante foto, quindi non mi stupisco. Ma nono pensavo che fosse possibile andarci addirittura dentro, sotto il famoso tubo scoppiato. E’ tutto arrugginito, ma intatto. Sono stupita anche dall’erba e dalle piante intorno. Mi immaginavo uno scenario post nucleare, con la terra bruciata…c’erano anche mucche al pascolo, scoiattoli che si rincorrevano e uccellini. Uno scenario bucolico, quasi. A una cinquantina dimetri c’e lo slum. Un bambino con la faccia da monello sorpreso a giocare tra le tubature e le vasche abbandonate, viene riaccompagnato da una guardia alla madre che lo rimprovera. Evidentemente la fabbrica e’ il loro parco giochi. Si mette a piangere. ‘Non possono bere l’acqua, che arriva con le autocisterne da fuori’’mi spiega la mia guida quando gli chiedo se non hanno problemi. Hanno la scuola, assistenza medica e le casette mi sembrano ben messe. Ma perche’ continuano a stare qui, almeno perche’non recintate l’area? Silenzio. Ci penso un po’ su e mi viene in mente la gente che un giorno andando in bicicletta ho visto che viveva sul bordo della fogna nel quartiere di RK Puram, a Delhi, di fianco al mio quartiere. E’ la fogna dove scarica il mio bagno. Si’, domanda senza senso.

L'India misteriosa e il miracolo informatico

Tra le mie ultime sfighe c'e' quella del collasso del mio laptop, forse per i 46 gradi massimi che New Delhi ha toccato un pomeriggio o per le continue fluttuazioni della corrente elettrica. Il portatile, fatto per il mercato italiano, non ci e' abituato. Come, forse, non ci sono abituati gli speaker Ubs Logitech improvvisamente ammutoliti.
L'emergenza digitale mi ha fatto conoscere quello che e' uno dei piu' grandi misteri dell'India. Non i fachiri o il sesso tantrico, ma il boom informatico! Continuo infatti a non comprendere come l'India possa promuovere se stessa come paradiso dell'high-tech. Qualcuno me lo spieghi, per favore.
Se avessi una telecamera vorrei filmare il Service Center dell'HP dove ho portato il cadavere del mio laptop. Ho scoperto che e' a pochi passi da casa mia, ma non l'avevo mai notato. Pensavo fosse un rigattiere o quei posti dove si portano a macerare la carta. Non esiste insegna, ma solo una sbiadita fotocopia su un muro scrostato dove c'e' scritto SERVICE CENTER. Le vetrine sembrano abbandonate da secoli, i muri sporchi e le poltroncine bisunte. Manco la sala d'aspetto della stazione piu' povera dell'India e' ridotta a un simile degrado. Se ci si guarda bene intorno, si capisce che il centro e' nato in origine come Compaq. Poi deve essere successo qualcosa di tremendo. Il tizio alla reception sembra rinchiuso nel braccio della morte tanto e' depresso. Eppure di gente ne arrivava, ognuno con un laptop sotto braccio e tante aspettative come me.
Il responso e' arrivato dopo due giorni. Un ragazzo mi ha mostrato l'hard disk che aveva appena estratto su un bancone da calzolaio. ''Lo senti questo ronzio?''. Io ho fatto segno di si credendo che fosse la risposta giusta. ''E' danneggiato'' ha sentenziato il tecnico senza variare espressione facciale. Non volevo solidarieta', ma almeno due parole di condoglianze. Nulla.
Il giorno dopo ho affrontato il girone infernale di Nehru Place, una serie di palazzoni decadenti dove migliaia persone ogni giorno entrano e escono con ogni tipo di attrezzatura elettronica sulla testa, sulle spalle, in braccio e in mano. Se Dante l'avesse vista, avrebbe aggiunto Nehru Place all'elenco delle bolge magari confinandoci Bill Gates.
Lo show room Dell sembrava un mercato del pesce, quello HP invece va un po' meglio. Ed e' li che il mio nuovo desktop da cui scrivo e' stato portato via sulla testa di un facchino che come Pollicino ha segnato il suo tragitto con ampi sputi rosso-arancioni.
Visto che c'ero, a Nehru Place, sono andata anche a fare una capatina al service center della Logiteck. Trovarlo in fondo a un corridoio dove vendono programmi piratati come alal fiera del paese, e' gia' stata un'impresa. Entrarci sgomitando tra la gente che agita circuiti elettronici come fossero pagnotte, e' stato un miracolo. Il centro e' uno sgabuzzino buio, per giunta maleodorante, con un ''buco'' per ricevere i pezzi difettosi e l'altro per consegnare quelli riparati. Siccome ero gia' abbastanza incazzata, i miei speaker sono passati sopra le teste e finiti direttamente sul bancone pieno di computer che, secondo me, sono fatti con gli e-waste della periferia est di Delhi. Non erano guasti, il problema era il cavetto di collegamento. Ma come si fa a rompere un cavetto dopo un mese? L'unica risposta dal tecnico-robot e' stato: ''i cavi non sono in garanzia, non possiamo sostituirli''. Avanti un altro. E questo sarebbe il ''back office'' del mondo

Tagore, io l'ho scoperto solo in India

L'India ha deciso di dedicare il 2010 a celebrare Rabindranath Tagore, poeta e intellettuale bengalese, nonche' premio nobel per la letteratura nato nel 1861. Da quest'anno si celebra il 150esimo anniversario della nascita. Sono stata nella casa-museo di Tagore a Calcutta in un giorno in cui era allagata per il monsone. Mi ricordo ancora che ero stata costretta a prendere un riscio', gli ''uomini cavallo'' come ci sono ancora a Calcutta. C'era oltre mezzo metro d'acqua e mi sarei bagnata troppo. Sono state solo poche decine di metri fino davanti alla cancellata, ma mi rimarra' per sempre impresso il poveretto che mi ha guadato fino a un posto all'asciutto. A Santiniketan, la citta' d'origine, dove c'era l'ashram, non sono andata, e me ne pento.
Ho scoperto Tagore in India perche' non l'avevo mai studiato al liceo. Per caso una delle prime poesie che ho letto e' anche diventata la mia preferita:

LUNGO MOLTI ANNI
A GRANDE PREZZO
VIAGGIANDO ATTRAVERSO MOLTI PAESI
ANDAI A VEDERE ALTE MONTAGNE
ANDAI A VEDERE OCEANI
SOLTANTO NON VIDI
DALLO SCALINO DELLA MIA PORTA
LA GOCCIA DI RUGIADA SCONTILLANTE
SULLA SPIGA DI GRANO

Trappole per topi


Questa che si vede qui a fianco e’ una trappola per topi ‘Made in India’. E’ una gabbietta (ci sono diverse dimensioni a seconda della preda) con una porta a scatto collegata con una bacchetta a cui si attacca l’esca. Dall’altro lato c’e’ una porta per l’ ‘uscita’. Per catturare il topolino che si e’ intrufolato in cucina ieri sera rovinandomi la serata e’ bastato un pezzo di pane. I topi indiani non vanno a formaggio. Pero’ sono considerati ‘sacri’, almeno dicono. Una volta sono finita anche in un tempio dedicato ai topi a sud di Bikaner, una delle esperienze piu’ traumatiche della mia vita. In effetti, spesso nei negozi mi capita di vederne e nessuno sembra curarsene. Una volta ero al ministero degli esteri e ce n’era uno che faceva capolino dal condizionatore sopra l’impiegato. Nelle fogne si vedono quelli grossi, pelosi e neri, come i maiali che qui non hanno nulla delle rosee tenerezze a cui siamo abituati.
Non ho idea se esistano altre trappole per topi simili nel mondo. Anzi mi verrebbe voglia di fare una ricerca, potrebbe essere interessante anche se magari qualcuno lo ha gia’ fatto.
Comunque e’ abbastanza intrigante la gabbietta acchiappa topi. La domanda che viene spontanea e’: che se ne fa del topo dopo? La risposta l’ho trovata osservando un vicino che una volta e’ uscito di casa e ha liberato il topo in strada. Io non ho mai avuto il coraggio di aprire la porticina di uscita. Una volta ho chiesto aiuto al chowkidar (la guardia di quartiere). Oggi invece, andavo di fretta, e dopo aver spinto fuori la gabbietta me la sono dimenticata sotto il sole. Sono tornata dopo un paio di ore e il topo era stecchito.

Anche l'Onu si e' accorto che ci sono piu' telefoni che cessi

L'altra settimana i grandi pensatori delle Nazioni Unite sono venuti fuori con una notizia banale, ma mediaticamente forte. In India ci sono piu' telefonini che gabinetti. Bella scoperta. Io ci avevo fatto ben due anni fa un post (leggete qui) partendo pero' dal fatto che secondo me c'erano troppi cellulari. Loro dicono invece che ci sono pochi cessi e che bisogna farne di piu'. Come se fosse piu' facile fare una fognatura che comprare una scheda Sim. Propongo di importare qui le vecchie cabine telefoniche da noi obsolete e trasformarle in cessi con il telefono. Provocazione? Vediamo cosa dice il prossimo rapporto Onu...

Ultime notizie dal paese della Tata Nano

Ecco qualche notiziola degli ultimi giorni da questo paese che non finisce mai di stupire

Le Tata Nano stanno invadendo Delhi. Ebbene si’, a due anni dal commovente lancio della topolino che esaudira’ i sogni degli indiani, la Nano ha cominciato a occupare il suo (piccolo) posto nel mostruoso traffico della capitale. Piu’ o meno ogni volta che esco mi capita di vederne una. Segno che le consegne stanno avvenendo, anche se qualcuna ha preso fuoco appena uscita dal concessionario, ma questo e’ un dettaglio…Mentre andavo nella zona diplomatica in scooter, ieri, sono stata superata da una Nano gialla, ancora con i segni della ‘puja’ sul cofano e i sedili incellofanati. Come me, anche gli altri automobilisti curiosi la stavano osservando avidamente. Ho notato anche una certa reverenza. Nel senso che le e’ stata data la precedenza e si sono anche mantenuti a una certa distanza (non so se per via del rischio che prenda fuoco come e’ successo…). Secondo me la Nano, almeno per ora, gode di un certo rispetto nella giungla d’asfalto.

Fa caldo come non faceva da 50 anni ad aprile. E’ quello che ho letto sui giornali oggi mentre stoicamente mi imponevo di fare colazione fuori sotto il sole ‘primaverile’. E’ vero. Delhi ribolle a 42 gradi o piu’ a seconda di dove si misura la temperatura. Qualche grado in meno la notte. A me piace questo calore, non uso nemmeno l’aria condizionata, ma solo il ventilatore. L’unico problema e’ surriscaldamento del laptop che cerco di ridurre con del ghiaccio sintetico, rimasuglio di una vecchia borsa frigo che usavo per la Pasquetta. In citta’ e’ chizzata la vendita di angurie e anche purtroppo la frequenza delle interruzioni di corrente (che pero’ permettono al mio laptop di raffreddarsi).

Il flop del vettore con motore criogenico. L’altro giorno gli scienziati indiani hanno lanciato un razzo con un sistema di propulsione fatto da loro con tanta fatica perche’ non e’ facile reperire certa tecnologia con pochi soldi (e senza spie). Il ‘Cape Canaveral’’ indiano e’ un isola sulla Baia del Bengala. Avevo scritto una notizia e stavo seguendo la partenza in diretta sul canale CNN IBN. Il razzo era uno di quelli giganteschi e portava un grosso satellite per le comunicazioni, anche quello orgoglio della scienza indiana. Quando e’ partito ha lasciato dietro una enorme scia di fuoco e fumo. Dalla sala di Cape Canaveral tutti si sono alzati in piedi e hanno applaudito. Dopo un paio di minuti vedo pero’ che la scia di fumo in cielo prende una piega storta. La Tv inquadra gli scienziati chini sui computer. Qualcuno scrolla la testa, altri confabulano. La commentatrice televisiva ipotizza che ci puo’ essere un problema. Sotto le immagini compare una scritta BREAKING NEWS: TROUBLES? Tutti quanti, me compresa, tratteniamo il fiato. La scia e’ sempre piu’ storta. Uno scienziato parla di ‘deviazione’, poi subito dopo dice che ‘’e’ stato perso il controllo’’. A quel punto vado in panico. Dove cadra’? Un collega che mi chiama al telefono mi dice di guardare fuori dalla finestra…Intanto gli scienziati confermano di aver perso il controllo del razzo a causa del malfunzionamento di due motori. E poi annunciano che il test sara’ compiuto di nuovo tra anno!
Dopo parecchie ore scopro finalmente che il costoso razzo con il suo altrettanto costoso satellite e’ finito in mare. Immagino lo splash, spero non abbia centrato nulla. Immagino si trovi negli abissi dell’oceano con il suo decantato motore criogenico e le altre diavolerie elettroniche. Un tesoro negli abissi. Chissa’ se qualcuno lo andra’ a recuperare? Per i riciclatori di e-waste vale un fortuna. La stampa indiana naturalmente tace anche su quanti soldi sono stati buttati a mare.

Prove di asfalto. Con i giochi del Commonwealth, che saranno a ottobre. La citta’ e’ un inferno di cumuli di terra, macerie, cantieri edilizi e polvere, tipo quella vulcanica islandese, ma piu’ bassa. Una devastazione da cui solo un paese come l’India - dove tutto (ma proprio tutto) e’ possibile - puo’ venirne fuori. Qualcosa pero’ e’ gia’ cambiato. Da casa mia al Khan Market, noto posto di ritrovo per stranieri a sud Delhi, non ci sono quasi piu’ buche. Me ne sono accorta l’altro ieri quando mi sono stupita di come lo scooter filasse liscio sull’asfalto. Ovviamente, e lo sottolineo dieci volte, sto parlando della parte ricca di Sud Delhi, che non e’ nemmeno il 10 % della capitale (del resto non so nulla perche’ ci vado raramente). In effetti il manto stradale era quasi perfetto. Ma che davvero Delhi stia per diventare una ‘first class city’ come vorrebbe la governatrice Sheila Diskhit?

Lezione di futuro con il sesto senso di Pranav Mistry

L’altro giorno mia figlia, che fa la terza media, e’ arrivata a casa piena di entusiasmo per un video che aveva visto in classe. ‘Mamma devi assolutamente vederlo, e’ scioccante’. Io credevo qualche cosa di horror. Invece era un video tratto da un sito, Ted.com, a me sconosciuto che parla di invenzioni e nuove idee.
Il filmato e’ una dimostrazione di un aggeggio che pretende di essere il nostro ‘Sesto Senso’. L’inventore, e’ manco a dirlo, un giovane indiano. Si chiama Pranav Mistry, uscito dalla fucina di cervelli dell’IIT che lavora per il Mit. E’ partito dal concetto di collegare il mondo fisico con quello virtuale di internet. E ha inventato un sistema che in parole povere permette di avere sempre un computer proiettato davanti a noi e che possiamo muovere con l’uso delle dita. Se guardiamo un libro, ci fornisce la recensione. Facciamo un riquadro con le mani e viene fuori una foto. Proiettiamo sulle mani una tastiera numerica e telefoniamo. Chiaramente e’ necessaria una connessione internet mobile (e un pacco di soldi visto che costa tantissimo collegarsi alla rete con telefonino).
Non sara’ forse troppo praticabile ora, ma potrebbe essere il futuro della tecnologia informatica e anche del nostro modo di vita. Il sistema ‘touch’ che nel giro di pochi anni ha trasformato telefonini e i-pod, in effetti, indica che stiamo andando in quella direzione.
Io sono un po’ turbata da questo ‘sesto senso’ che secondo me ci impedira’ di usare i primi cinque e soprattutto ci impedira’ di usare il cervello. Ma cosi’ e’. Purtroppo temo che il mio gap tecnologico sia ormai incolmabile.
Il bello pero’ deve ancora arrivare. Quando ho chiesto in quale materia era stato mostrato il video mi ha risposto: ‘e’ stata la professoressa di storia’. ‘E che cosa c’entra la storia con la scienza?’’ domando io ingenua. La replica mi ha lasciato senza fiato: ‘La storia l’abbiamo finita, in questo trimestre studiamo il futuro’’.

I funerali di Gesu’Cristo visti da Goa


Ho trascorso il Venerdi’ Santo curiosando tra le chiese della cattolicissima Goa per vedere se trovavo una passione vivente. Come quelle che, con attori macchiati di ketchup, si fanno nella citta’ vecchia di Gerusalemme dove c’e la via Crucis ‘originale’. Le feste comandate a Goa, come il Natale o la Pasqua, hanno un sapore di tempo passato, con i colori tropicali e gli odori del mare. Potrebbe essere come nel Meridione tanti anni fa o forse ancora adesso quando si portano in processione i santi e le madonne. Le donne mettono i vestiti della festa, gli uomini indossano camicie che profumano di bucato, i ragazzi che sbirciano di sottocchio le ragazze nei banchi di fianco. Le messe, in lingua concani, sono interminabili. Cosi come lo sono i canti. Le chiese, intonacate di un bianco cangiante con i bordi dei cornicioni di un azzurro cielo, sono di solito gli edifici piu’ imponenti del villaggio. A Galgibagh, la spiaggia delle testuggini protette, dove mi trovavo, alcuni dei fedeli sono arrivati su un traballante guscio di legno, un pezzo da museo, che li ha traghettati attraverso un fiume tipo Laguna Blu.
Pensavo che la tradizione del Venerdi’ fosse una processione con le classiche soste nelle 24 stazioni della Via Crucis. Invece ho assistito al funerale di Gesu’ Cristo. La statua a grandezza naturale viene ‘schiodata’ dalla croce, messa in una sorta di bara aperta, coperta con un lenzuolo ricamato e portata in giro da tutto il villaggio proprio come un defunto, ma con dietro la statua della Madonna. Il ‘’morto’’ ritorna poi in chiesa dove riceve l’ultima benedizione dai preti prima di essere sistemato in un angolo dell’altare per la veglia funebre.
Purtroppo per Pasqua sono ritornata a New Delhi e sono finita in un’austera e sobria messa alla Nunziatura Apostolica in spagnolo. Peccato,mi sarebbe piaciuto vedere come i goani fanno resuscitare Gesu’ e come poi lo rimettono sul crocefisso.

Le virtù dell’immigrazione, la scuola americana e Friedman

Siccome mia figlia ha cambiato scuola, da un po’ di tempo vado a fare colazione all’American School, nel quartiere diplomatico di Chanyakiapuri. Ho abbandonato il Barista-Lavazza di Khan Market e purtroppo anche il Lodhi Garden. Dico purtroppo perché adesso vado a fare jogging a Nehru Park che ha un percorso più lungo che mi spacca le gambe.
Il campus della scuola americana è il sogno di ogni studente. Sembra quasi finta per me che ho fatto la terza media in una scuola di periferia, di quelle costruite in fretta e furia per contenere la spinta d’urto dei baby boomers e dove ogni giorno alla ricreazione c’era un pestaggio. Gli studenti mi sembrano comparse di un telefilm americano. Vedo i ragazzi, di tutte le razze, colori e lingue, camminare con il laptop sottobraccio. In biblioteca sono seduti a leggere sui divani. In piscina sono a fare vasche con davanti il cronometro. I professori che ti sorridono. Insomma, un mondo perfetto. Mi sale la depressione a pensare a come ho fatto io le medie in Italia. Per non parlare dell’Università a Torino. Va anche detto che tutto cio’ si paga salato e che i ragazzi appartengono a una fortunata elite. Ma non sembrano montarsi la testa e soprattutto sono determinati a sfruttare l’opportunità unica di studiare in un ambiente internazionale. Questo succede in India, ma penso capiti anche nei college degli Usa.
L’altro giorno mentre ero persa in queste considerazioni davanti a un caffelatte, mi è capitato sottocchio proprio a fagiolo un editoriale di Thomas L. Friedman sul New Yok Times in cui si esaltano le virtù dell’immigrazione e del melting pot. Friedman è uno dei miei preferiti. E’ anni luce in avanti quello che si scrive sui giornali italiani (che leggo ormai solo raramente). Questo pezzo in particolare, ne farei una lettura obbligatoria in Italia, dove gli immigrati sono ancora i “vu cumpra” e i bambini stranieri a scuola sono visti come un pericolo e non come una risorsa.

Quando le donne indiane evirano i mariti…

Essendo il mio nome nella lista dei giornalisti accreditati in India che è pubblica, mi capita a volte di ricevere lettere di cittadini arrabbiati contro il governo oppure altri che denunciano episodi di corruzione. Il classico “lo farò sapere ai giornali” funziona anche qui. Ogni tanto però mi capita di ricevere lettere strampalate come questa inviata da un certo Sig. Nirav di Vadovara (in Gujarat) che in un inglese un po’ maccheronico propone una legge per la prevenzione delle “offese sessuali maschili” e specificamente contro l’evirazione. Allega anche la bozza di legge da lui scritta da presentare al Parlamento e alcune fotocopie di articoli di cronaca nera con atroci racconti di evirazioni da parte di mogli, sorelle, amanti o zie in diverse parti dell’India. Un articolo è anche corredato da un disegno di una donna in sari che brandisce un coltello in direzione di un uomo seminudo. Molti dei malcapitati ci hanno anche lasciato le penne, oltre che il pene.
Secondo quanto scrive il sig.Nirav, “i reati criminosi di taglio del pene (“penis-cutting of men”) sono in aumento e quindi ci vuole una legge severa per punire questi reati che sono contro natura e che distruggono la sessualità e le capacità sessuali (“against nature to destroyed sexuality and sexual abilities, sic)”.
Per ribadire il concetto sul frontespizio della lettera sono disegnate alcune gocce di sangue che rende il tutto ancora più orrido. Sotto compare la firma anche della moglie che si unisce all’appello. Mah…e io che pensavo che in India fossero le donne le vittime della violenza maschile…

Corbett Park, più sciacalli che tigri

Disavventure del turismo fai da te

Per Holi, la festa dei colori, sono andata al Corbett Park, una delle più popolari riserve per le tigri, a una notte di treno a nord di Delhi, nello stato settentrionale dell’Uttarkhand. A Corbett, dicono ci sono ancora 164 tigri su un totale di 1411 sopravissute al bracconaggio, alla cementificazione e anche alla corruzione degli enti forestali. In occasione della festività, il parco era pieno di vacanzieri indiani, o almeno così mi hanno detto dall’ufficio informazioni di Ramnagar, città a 40 km dall’ingresso della riserva, dove c’è la stazione più vicina.
Dopo oltre 8 anni di viaggi in India, poche volte sono tornata delusa. Ma con Corbett è successo. Probabilmente avrei dovuto prendere un pacchetto tutto compreso per evitare i ricatti e l’arroganza degli addetti del parco e di tutti gli altri maneggioni che ti puntano fin da quando metti piedi giù dal treno e che tentano di mungerti il più possibile. La mia intenzione era di prenotare una camera o un letto in uno delle guesthouse governative e comprare un ingresso al parco più un safari con jeep o elefante. Come sempre, anche a Corbett gli stranieri pagano il doppio degli indiani. Per esempio l’ingresso (due giorni) è 900 rupie per gli stranieri e la metà per coloro che hanno nazionalità indiana. Stessa differenza per i safari con jeep o elefante. Il “listino prezzi” - che mi è stato fornito da un tizio per strada ancora prima che arrivassi all’ufficio - conteneva diverse opzioni, ma quando sono riuscita a parlare con un addetto dell’Information Center (che ha aperto con un’ora di ritardo) sono stata raggelata. Con estrema arroganza da dietro lo sportello mi ha detto che l’unica possibilità era il safari con il bus (6 ore) al costo di 2000 rupie a testa. Non è stato neppure a sentire quando gli ho detto che volevo stare 2 o 3 giorni e se c’erano altre sistemazioni disponibili. Niente, come se avessi parlato a un muro. Non ho ricevuto il minimo aiuto o consiglio. L’unica soluzione era accettare l’offerta degli sciacalli che mi circondavano e che a caro prezzo mi avrebbero trovato una soluzione e - sono sicura - anche un biglietto di ingresso. Ho girato i tacchi e dopo tre ore di bus ero a Nainital, località montana a due mila metri con uno splendido lago color smeraldo. Però - mi chiedo - se è così che in India gestiscono i parchi, povere tigri…

Il cellulare del capo maoista? Eccolo qui

“Il mio telefonino è 9734695789, chiamami se vuoi la tregua”. Il super ricercato maoista Mallojula Koteshwar Rao, nome di battaglia compagno Kishenji, che sta dando del filo da torcere all’esercito indiano, ha proposto al ministro degli interni PK Chidambaram di chiamarlo al cellulare. Siamo decisamente entrati nell’era della comunicazione globale. E’ già tanto che il capo guerrigliero, in clandestinità da ben 23 anni, non abbia proposto a Chidambaram di chattare su Hotmail. Così vanno le cose nella “misteriosa” quanto controversa operazione militare “Green Hunt” lanciata dal battagliero ministro degli interni contro i maoisti che si nascondono nelle foreste del centro e nord est dell’India (da qui il nome green, non certo perché difende l’ambiente). Di questa guerra interna che l’India sta conducendo, si sa ben poco. Alcuni dicono addirittura che l’offensiva non sia mai stata lanciata. Intanto però i maoisti continuano ad attaccare basi e guarnigioni militari. Poco si sa anche dei maoisti, o naxaliti come sono chiamati, e per quale causa combattono. Sono rivoluzionari Robin Hood che lottano per i contadini senza terra e contro le multinazionali delle ricche miniere dell’Orissa e Jharkhand? Oppure sono dei semplici briganti? O ancora sono dei comunisti più radicali che ce l’hanno con i compagni bengalesi che sono al potere? Comunque sia Mao c’entrerebbe ben poco.
Il bello è che prima che Kishenji fornisse il suo numero di telefonino pregando di chiamare alle 17 di mercoledì, il ministro Chidambaram a sua volta aveva dato il suo numero di fax invitando i maoisti ad arrendersi.

Super elicotteri italiani per Sonia Gandhi?


A Defexpo 2010 ancora in suspense la fornitura degli Agusta VVIP
Fa sempre un certo effetto andare alla fiera degli armamenti di Delhi, diventata ormai una dei più importanti appuntamenti dell’Asia per la quantità enorme di soldi che il Paese del Mahatma Gandhi intende spendere nei prossimi dieci anni. Si parla, infatti, di 200 miliardi di dollari. Non oso neppure immaginare che cosa si potrebbe fare per la povera gente con quella somma. Ma l’esercito qui ci vuole, non solo per combattere il Pakistan, ma soprattutto per resistere alla Cina che preme ai confini himalayani. L’India ha uno degli eserciti più grandi del mondo, ma anche il più smandruppato. Le caserme sono delle tendopoli protette da recinzioni di bambù come quell’assaltata mercoledì in Bengala Occidentale dai maoisti che hanno ammazzato 24 soldati praticamente senza incontrare resistenza. I giornali hanno detto che la base era un “picnic spot”. Il dramma è che in realtà sono tutte così.
A Defexpo 2010, quest’anno un po’ disorganizzato per via dei lavori di ristrutturazione della fiera Pragati Maidan, hanno partecipato come sempre tutti i big dell’industria mondiale della difesa per far vedere il fior fiore dell’ultima tecnologia in fatto di cannoni, carri armati, razzi e mitragliatori. C’erano persino i pacifici svizzeri con i loro coltelli Victorinox. Grande protagonista del salone, l’elettronica con tutta una serie di aggeggi per il “soldato del futuro”, tipo i marines in Iraq o Afghanistan. Mi venivano in mente in poveri “jawans” in ciabatte massacrati dai guerriglieri maoisti, anche loro in ciabatte, naturalmente. Certo, qui c’è parecchio da fare e da vendere.
L’Italia era presente in grande spolvero con un mega stand di Finmeccanica e delle sue controllare tra cui gli elicotteri AgustaWestland. I manager italiani avrebbero voluto ufficializzare la vendita di 12 elicotteri AW 101 VVIP, ma a quanto pare il governo indiano non ha voluto. Perché? Nessuno lo sa….Secondo me è perché il super elicottero (gli americani lo volevano per rimpiazzare il Marine One di Obama, ma poi è arrivata la crisi…) serve a trasportare il premier, la presidente e molto probabilmente anche Sonia Gandhi, che è quella che ha più esigenze in materia di sicurezza. La faccenda è quindi sensibile…Madam che viaggia su costosissimi elicotteri italiani….mmm. Meglio aspettare che si spengano i riflettori della stampa su Defexpo 2010…
Intanto per la felicità degli aspiranti top gun, il consorzio italo-francese-spagnolo-austriaco-britannico e saudita di Eurofighter ha portato al salone un simulatore di volo che è una versione semplificata di quello usato per l'addestramento dei piloti. In ballo, si sa c’è la “madre di tutte le commesse”, 126 cacciabombardieri, che da ormai circa 8 anni devono essere aggiudicati. Il caccia europeo Typhoon è ben piazzato. Me l’hanno fatto provare. Non vorrei dire una bestialità, ma sembra di guidare uno scooter talmente è maneggevole. Avrei dovuto centrare con un missile una portaerei al largo delle coste britanniche, ma l’ho mancata per un pelo. L’atterraggio è però difficile, quasi tutti, me compresa, si sono schiantati appena toccata terra…

Quanto inquinano i salatini all’asparago?

Il Teri ha organizzato il decimo Delhi Sustainable Development Summit

Nei giorni scorsi si e’ tenuto a New Delhi un’importante conferenza internazionale sul clima organizzata dal centro ricerche TERI, che (nessuno sembra ricordarlo) stava per Tata Energy and Resources Institute in quanto creato nel 1974 dal colosso industriale indiano. Da un po’ di anni la “T” e’ diventata solamente “The” nell’acronimo e la prestigiosa organizzazione no-profit ora esclude qualsiasi connessione con il gruppo Tata. A capo del Teri dal 2002 c’e’ Rajendra Pachauri, che e’ anche presidente del Comitato Intergovernativo Onu per il Cambiamento Climatico vincitore del Premio Nobel per la Pace insieme all’ex presidente Al Gore. Pachauri e’ un omone che potrebbe benissino interpretare il cattivo nelle favole per bambini. Dopo anni di popolarita’ quest’anno e’ incappato in una serie di incidenti di percorso e anche in una campagna al vetriolo da parte della stampa britannica che lo ha “accusato” di vivere a Golf Links, ricco quartiere di Delhi e di spendere una fortuna per gli abiti. Per quanto ne capisco di moda – esprimo il giudizio in quanto italiana – io lo vedo sempre vestito malissimo. Sembra Pierrot. La stoffa sara’ pure pregiata, ma il sarto e’ decisamente da cambiare. La sua imagine si e’ decisamente offuscata quando durante il vertice di Copenhagen e’ uscito fuori che i ghiacciai himalayani non si scioglievano nel 2035, ma nel 2235 o giu’ di li. Ci sarebbe stato un errore di stampa nel quarto rapporto del Comitato Intergovernativo da lui presieduto, meglio noto come IPCC. Pachauri ha ammesso l’errore, ha chiesto scusa e ha resistito agli attacchi di chi voleva che si dimettesse. Ha pure incassato la fiducia del primo ministro indiano Manmohan Singh che ha inaugurato il summit di Delhi, chiamato Delhi Sustainable Development Summit e giunto alla decima edizione.
Dato che era la prima occasione di un incontro internazionale, il convegno ha attirato un buon numero di ministri stranieri, tra cui anche la ministra italiana Stefania Prestigiacomo. Dopo il fallimento di Copenhagen e (prima del probabile fallimento di Citta’ del Messico) e’ stata una buona occasione per confrontarsi tra politici e esperti. Ma non so fino a che punto, in quanto i Paesi emergenti, India e Cina, non sembrano abbandonare le loro posizioni. L’Europa e’ senza parole e gli Stati Uniti hanno altri pensieri ora.
Ma negoziati di Kyoto a parte, il vero protagonista di questi convegni e’ ormai l’eco business. Mi sto accorgendo quanto l’ambiente ormai e’ la foglia di fico per coprire enormi interessi in gioco. Sabato pomeriggio ho assistito alla sessione dedicata a finanziare il trasferimento di tecnologia pulita ai paesi poveri. Che, detto cosi’. sembra una cosa buona, diamo i depuratori al Terzo Mondo cosi che non inquinano piu’, ma che nasconde gli stratosferici interessi della grande industria che produce i depuratori, tanto per fare un esempio. In una sala del Taj Palace Hotel, dove e’ stato organizzato il vertice, c’erano appunto le grandi aziende straniere che producono la tecnologia verde e che ovviamente hanno oggi la piu’ potente lobby presso governi, Nazioni Unite e organizzazioni no-profit. Di “verde” ci ho visto poco. Solo per pubblicare il kit dei delegati, su carta patinata, avranno buttato giu’ un pezzo di foresta. Durante il break hanno servito dei salatini all’asparago. Non mi risulta che gli asparagi crescano in India, eccetto forse che a casa di Sonia Gandhi, nel cui orto crescono i finocchi (ho fonti di prima mano, ma non li rivelero’ nemmeno sotto tortura). Quindi sono stati importati, probabilmente in aereo….

Ma quante ceneri del Mahatma esistono ancora?

E' uscito il film The Road to Sangam
La vigilia dell’anniversario dell’uccisione del Mahatma, avvenuta il 30 gennaio, sono andata all’anteprima di un bel film “gandhiano” a metà tra fiction e realtà. Si tratta di “The Road to Sangam” del regista debuttante Amit Rai presentato l’anno scorso a Cannes. La storia è vera: un’urna contenente le ceneri di Bapu era stata “dimenticata” nel caveau di una filiale della State Bank of India nello stato orientale dell’Orissa. Uno dei pronipoti, Tushar Gandhi, che nella pellicola, recita se stesso, riesce dopo una lunga causa giudiziaria a riaverla e la porta ad Allahabad per immergerla alla confluenza del Gange, Yamuna e il mitico Saraswati. Solo che per la cerimonia vuole usare una vecchia Ford, la stessa utilizzata anche nel 1948. Da qui il canovaccio si intreccia con le vicende di un meccanico mussulmano, molto devoto, che deve riparare il vecchio motore e nello stesso tempo lottare contro la propria comunità (e contro un intransigente “maulana” che somiglia un po’ a bin Laden) per avere il diritto ad aprire la propria officina nonostante uno sciopero proclamato dai mussulmani per protestare contro i metodi repressivi della polizia. Un film decisamente patriottico, un po’ caricaturale nel dipingere i mussulmani, ma bello perché reca un forte messaggio di unità e tolleranza, soprattutto in questi tempi in cui l’Islam è spesso associato al terrorismo. Bella la musica e non mancano le battute divertenti. Insomma da vedere.
Alla serata, all’auditorium dell’Indian International Center, c’era anche lo stesso Tushar Gandhi, figlio del giornalista Arun Gandhi che vive negli Stati Uniti, figlio del secondogenito del Mahatma e forse l’unico impegnato a diffondere i principi gandhiani, anche se tra mille polemiche e controversie. I discendenti di Bapu si sono rivelati molto rissosi e purtroppo non all’altezza dell’illustre antenato.
Mi hanno colpito le parole di Tushar, un omone grande e grosso che non ha nulla del bisnonno, che ha raccontato di quando ha aperto la cassa sigillata contenente l’urna. “Di solito sono una persona molto pragmatica – ha detto – ma quando ho toccato l’urna di terracotta ho avuto una forte sensazione e ho capito che quelle ceneri volevano essere liberate. Ho capito che dovevo immergerle subito e così ho fatto”. Era il 1997 e le ceneri sono state immerse ad Allahabad, come si vede nel film.
Mi ricordavo però che due anni fa, per il sessantesimo anniversario della morte, altre ceneri erano state disperse nel Mar Arabico a Mumbai da altri pronipoti e leggo ora che ieri altri resti sono stati immersi in Sudafrica. Dopo la cremazione si dice che le ceneri siano state divise in 20 urne e inviate in ogni stato dell’Unione Indiana. Nel museo davanti al mausoleo del Rajghat a Delhi di fatti sono esposte altrettante urne vuote...ma quante ceneri del Mahatma esistono ancora?

La cultura vista dalla strada

La mostra fotografica Un.it Unescoitalia e quella di uno ex slumdog
Nelle ultime due sere sono andata all’inaugurazione di due mostre fotografiche. Una organizzata dall’Istituto di Cultura Italiana, “Un.It Unescoitalia”, dedicata a 44 monumenti italiani immortalati da 14 famosi fotografi italiani. L’altra organizzata dall’American Center, “WTC: Now”, realizzata da un ex “street children” diventato fotografo grazie a una ong indiana e grazie all’aiuto di una fondazione americana. Entrambe le mostre esaltavano paesaggi, persone e situazioni “nazionali”. Le meraviglie architettoniche dell’Italia in un caso, la costruzione del nuovo grattacielo a Ground Zero e alcuni angoli di Manhattan con un tocco di patriottismo nell’altro caso. A corredo della mostra americana sono stati proiettati anche alcuni cortometraggi sull’11 Settembre realizzati da diversi registi, tra cui Mira Nair, fondatrice di Salaam Balaak. Entrambe le mostre sono state inaugurate dai rispettivi ambasciatori, Roberto Toscano e Timothy Roemer e entrambi gli eventi hanno avuto una buona accoglienza da parte del pubblico.
Bene, dove voglio andare a parare? Che gli americani sono riusciti – come quasi sempre – a emozionare. La storia dell’ex slum dog, Vicky Roy, che fino a pochi anni prima sniffava colla alla stazione e ora espone foto su Manhattan, non può non commuovere. L’appello di Sanjay Roy, produttore cinematografico, anche lui fondatore della Fondazione Salaam Balaak, ad aiutare i suoi 3500 bambini di strada non solo con denaro, ma aiutandoli a realizzare le loro legittime aspirazioni, di sicuro non è caduto del vuoto. Il messaggio è forte. La miseria si vince non con l’elemosina, ma con le idee e aprendo le porte.
Il contrasto con le foto di una mostra italiana itinerante del 2008 su luoghi che solo pochissimi fortunati potranno mai vedere, balza agli occhi. I fotografi italiani, selezionati dal Ministero degli Affari Culturali, non hanno certo bisogno di un’audience indiana. Perché allora non invitare qualche fotografo indiano a fotografare il Belpaese? Forse costava anche di meno.

Sania Mirza, meglio la racchetta che l’altare

La tennista ribelle dice no al matrimonio combinato
Ancora una volta Sania Mirza, la tennista superstar mussulmana, ha mostrato di guadagnarsi il titolo di beniamina delle femministe indiane. Dopo aver annunciato in pompa magna il fidanzamento l’anno scorso con un amico di infanzia di Hyerabad, probabilmente scelto dalle rispettive famiglie, Sania ha cambiato idea. In una conferenza stampa ha detto ieri che ci sono incompatibilità di carattere e poi è partita per le qualificazioni della Fed Cup 2010. Bel colpo, forse il migliore della sua carriera. Ha lasciato a bocca asciutta il fidanzato, rampollo di una famiglia industriale e appartenente alla casta dei Mirza, i genitori che come tutti i genitori, vogliono vedere le figlie piazzate prima che sia troppo tardi e poi tutti i benpensanti mussulmani e non. La ribelle Sania è tornata in azione. E questa volta sarà la fine dei matrimoni combinati in India?

Cala la nebbia sul Republic Day

Sarà per la nebbia, fittissima come non mai, oppure per l’allarme attentati, ma la tradizionale parata della Festa della Repubblica è stata un po’ sottotono. Per la prima volta sono riuscita a ottenere degli inviti dal Ministero della Difesa per un posto da Vip proprio davanti alla tribuna d’onore dai vetri blindati dove sedeva la presidente Pratibha Patil e il suo ospite, il premier sudcoreano Lee Myung Lee.
Alle 10, quando è iniziata la sfilata con le cannonate a salve, non riuscivo nemmeno a vedere al di la della strada, di Rajpath. I carrarmati Arjun e il missile terra terra Agni 3, gioielli della tecnologia militare indiana fai-da-te, comparivano come mostri da una fumosa coltre bianca anticipati dalla patriottica descrizione di uno speaker, sempre il solito, che ha un tono da filmato dell’Istituto Luce. Neppure le pacchianissime truppe cammellate sono riuscite a bucare la nebbia che ha fatto saltare l’esibizione degli elicotteri da combattimento LHC, ma non quella della pattuglia acrobatica che ha disegnato in cielo il “trishul”, il tridente simbolo di Shiva. Per fortuna alla fine si è levato un po’ di vento e ho potuto vedere Manmohan Singh e la moglie accompagnare la presidente Patil, in un cappottino bianco, alla sua macchina accompagnata da 46 guardie presidenziali a cavallo.
Mi è sembrato che la parata è stata un po’ accorciata quest’anno. Pochi i palloncini verde-giallo-arancione- lanciati alla fine (ma forse con la nebbia non li ho visti) e meno entusiasmo tra la folla. Per lavoro, ma anche per curiosità infantile, ogni anno cerco di seguire la parata del 26 gennaio. E’un‘esibizione di muscoli di un’India che per me continua a rimanere quella del Mahatma Gandhi, ma anche una delle rare occasioni di celebrare l’unità nazionale con la sfilata dei cosiddetti “tableau”, i carri allegorici viventi, presentati dagli Stati dell’Unione. Mi è piaciuto quello del Maharastra dedicato ai “dabbawalla”, quelli che a Mumbai ogni giorno portano le gamelle del pranzo dalle case agli uffici e sono diventati un “case study” di management perché fanno un errore su sei milioni di consegne. Mi è sembrato anche di vedere meno folla su Rajpath. Gli indiani, quelli ricchi, hanno fatto il ponte, mentre gli altri forse la vedono per televisione.
Dopo 60 anni di Republic Day, caratterizzati da successi, ma anche da fallimenti come hanno evidenziato alcuni come lo storico Ramachandra Guha su Outlook (vedi), forse subentra una certa stanchezza. D’altronde anche in Italia, repubblica quasi coetanea, chi se lo ricorda il 2 giugno?

Republic Day, la Posco e le foreste dell’Orissa


Il presidente sudcoreano Lee Myung-bak sarà l’ospite d’onore della parata militare di domani
Stamattina "The Indian Express" dedicava un articolo in prima pagina agli "ospiti di onore" della parata che si tiene domani, 26 gennaio, Republic Day, che vede il sessantesimo anniversario della Repubblica indiana. La tesi del giornale é che l'India ha sempre invitato i leader a seconda della propria convenienza del momento. Quest'anno tocca al presidente sudcoreano, Lee Myung-bak, soprannominato Mr. Bulldozer per aver modernizzato la capitale Seul. I coreani sono giá ampiamente presenti con le loro auto,televisori, telefonini e elettrodomestici nelle case delle famiglie indiane e se non lo sono, lo sono sicuramente dei sogni dei futuri consumatori. Ma non si tratta solo di vendere i nuovi gadget Samsung o Lg. La partita é piú grossa e appetitosa per Seul e per New Delhi. Ci sono le centrali nucleari da costruire sgomitando con i francesi e americani, e poi l'acciaio. Per accontentare l'illustre ospite il governo indiano ha promesso di accelerare il controverso progetto della Posco nello stato dell’Orissa. Il gigante coreano dell’acciaio, a caccia di miniere di ferro per aumentare la propria produzione e sfamare la vorace industria automobilistica, è da qualche anno bloccato a causa della resistenza dei contadini dell’Orissa contrari all’esproprio delle terre agricole e anche degli ambientalisti. Il mega progetto Posco, 12 miliardi di dollari, il più grande investimento straniero in India, prevede la costruzione di un impianto siderurgico dalla capacità di 12 milioni di tonnellate di acciaio all’anno e anche un nuovo porto a Jathadari, una costa dove nidificano le rare Olive Ridley Turtley. In termini ambientali, significa abbattere una foresta di 300 mila alberi e muovere decine di villaggi popolati da indigeni dell’Orissa, la “mineral belt” indiana ricca di ferro, bauxite e anche uranio.
Lo scorso 8 gennaio, un po’ in sordina, il Ministero dell’Ambiente e delle Foreste indiano ha dato il suo ok all’impianto evidentemente come “cadeau” di benvenuto per Lee e per la sua partecipazione al Republic Day. Pare che l’”environmental clearence” non sia però sufficiente data la forte opposizione della popolazione locale che deve ancora negoziare il pacchetto di rimborsi per la terra e per il la rilocalizzazione. Insomma Posco potrebbe fare la fine della Tata Motors costretta ad abbandonare i piani di fare la fabbrica della Tata nana su dei terreni confiscati vicini a Calcutta. Ma sarebbe una bella figuraccia di fronte a Lee, oggi accolto con tutti gli onori dalle tre associazioni industriali indiani, la Cii, Ficci e Assocham, che raramente organizzano insieme un evento. Ripeto, non sono io a a dirlo, ma è l’Indian Express (Behind the warm Welcome, a cold strategy)…certo che gli indiani sono maestri di pragmatismo soprattutto quando c’è odore di soldi.

Spose bambine e coccodrilli che mangiano i padri

Come ogni anno in occasione del Republic Day, martedì 26 gennaio, avviene la consegna dei National Brawery Awards a dei bambini che si sono segnalati per il loro coraggio o altruismo nel salvare delle vite umane. Piccoli eroi che sembrano usciti dal libro Cuore. Storie che solo in India, paese ancora aggrappato ad un passato quasi fiabesco, riescono a conquistare le prime pagine dei quotidiani nazionali. Da noi la cosa sarebbe immediatamente bollata come fascista. I 21 bambini, under 16, in uniforme rossa, hanno ricevuto una medaglia e una somma di denaro dal primo ministro Manmohan Singh e martedi avranno l’onore di sfilare alla parata. Fino a due anni fa sfilavano – pensate un po’ – su un palanchino a dorso di elefante. Poi a causa di qualche pachiderma imbizzarrito e anche per le proteste degli animalisti come Maneka Gandhi, la cognata ribelle di Sonia, la tradizione è stata abbandonata. Il Times of India ha dedicato una pagina alle loro imprese. Mi ha colpito quella di Narendrasinh Natwarsihn Solanski che in Gujarat ha affrontato un coccodrillo che si stava per mangiare il padre. Gli ha ficcato un bastone negli occhi e la bestia ha mollato la presa. Afsana Khatun, invece, si è rifiutata di sposarsi all’età di 12 anni. In un piccolo villaggio del Bengala Occidentale, dove vive, ha perfino convinto altre due amiche a non cedere alle pressioni delle famiglie ed ha iniziato un movimento contro i matrimoni infantili. Che coraggio.

Scioglimento dell'Himalaya, genesi di un'eco bufala

L'ecobufala dei ghiacciai dell'Himalaya che svaniscono nel 2035 nasconde almeno due spaventose realtá. La prima é che come da tempo vado dicendo purtroppo non esiste piú senso critico non solo tra i giornalisti, ma anche tra la comunitá scientifica. La tecnica del "copy and paste" é utilizzata anche da superesperti e plurilaureati che si fanno profumatamente pagare per conferenze oltreoceaniche e tonnellate di carta con estremo danno ai cieli e alle foreste. Secondo é che dall'appiattimento delle informazioni - di cui lo strumento internet é il maggiore responsabile - qualcuno forse ci guadagna. Qualcuno ciurla nel manico per usare una vecchia e ormai disueta espressione. Vedi la storia dell'influenza suina e degli inciuci tra Organizzazione Mondiale della Sanitá e industrie farmaceutiche.
La tesi dello scioglimento accelerato dell'Himalaya, che ha alimentato la vecchia acrimonia tra il ministro dell'ambiente Jairam Ramesh e il Premio Nobel per la Pace, Rajendra Pachauri (capo dell'IPCC), é basato su una serie di perle impressionanti. Nel 1999 il glaciologo indiano Said Iqbal Hasnain rilascia una dichiarazione per e-mail alla rivista The New Scientist dove dice che i ghiacciai himalayani sono destinati a sparire nel 2035. Dice di averlo detto solo in quella occasione, non si sa perché, forse perché aveva digerito male. Sei anni dopo, nel 2005, il WWF, probabilmente a corto di idee, riprende la sparata e la mette in un suo rapporto. Passano altri due anni e nel 2007, i super esperti e Premi Nobel del Intergovernamental Panel on Climate Change, anche loro in cerca di "ciccia" per rendere piú sexy ("sex up" direbbero dall'ufficio di Blair) il loro quarto e ultimo rapporto, riprendono lo stesso dato e lo copiano nel paragrafo 10.6.2. Voilá. Primo mi chiedo quanti di loro, come molti altri esperti delle Nazioni Unite, abbiamo mai visto un ghiacciaio himalayano. Consiglierei una traversata del Baltoro Glacer per farsi venire qualche idea. Ma potrebbe andare bene anche una passeggiata fuori dagli hotel o dai loro uffici una mattina di inverno, come quella di oggi a Delhi. Tanto per capire che esiste un mondo reale oltre lo schermo dei loro computer. Secondo, cosí facendo si rischia di screditare la problematica dell'inquinamento (io lo chiamo ancora cosí) che esiste, eccome, e che di sicuro non sono i superesperti di "climate change" a risolverlo...

Quando il Sole entra nel Capricorno…

Cinque milioni di pellegrini al Kumbh Mela di Haridwar

Oggi è Makar Sankranti, parola sanscrita che indica il passaggio del Sole nella costellazione del Capricorno secondo il complesso zodiaco induista. Ho scoperto che è uno dei giorni più importanti del calendario e coincide con diverse attività e celebrazioni. E’ il giorno della mietitura, ma è anche considerato la fine dell’inverno, anche se fa ancora un freddo cane. Qui a Delhi lo chiamano Lohri, accendono dei falò e fanno dei riti propiziatori. In Gujarat oggi inizia la festa degli aquiloni e ad Haridwar, sul Gange, sempre oggi, è iniziato il Kumbh Mela. Da uno ai 5 milioni di pellegrini – le stime variano – hanno o faranno il primo bagno nelle acque del fiume sacro quest’anno eccezionalmente gelide. Il Purna Kumbh Mela 2010 di Haridwar non è quello più grande ma fa poca differenza quando si parla di qualche milione in più o in meno di visitatori. Dicono che il Kumbh Mela sia uno dei più grandi assembramenti religiosi del mondo, forse più della Mecca. Le resse fanno ogni volta decine di morti. Sempre oggi in Bengala Occidentale, in un altro bagno sacro, il Ganga Sagar, diversi pellegrini sono stati uccisi perché schiacciati dalla calca. Mi chiedo spesso se tanto fervore religioso in posti come Haridwar, Benares o ancora di piú Gerusalemme, abbiano il potere di “accumulare” energie positive, quindi benefiche per chi si trova a contatto. Casualmente ieri pomeriggio, all’American Embassy School, c’era una conferenza di un fotografo Martin Gray che da ben 40 anni non fa altro che immortalare posti sacri (www.sacredsites.com). Le sue foto, semplicemente perfette, sono finite anche sul National Geographic. Non senza presunzione, è convinto di ricevere l’aiuto delle divinità quando fotografa i posti sacri. In effetti alcune sembrano solo frutto di buona sorte nel senso di luce ideale e posizione ideale.
Tornando al Makar Sankranti, alla transizione del Sole e ai 5 milioni di pellegrini che in questo momento adorano le acque di un fiume, c’è anche un'altra coincidenza di fenomeni naturali, l’eclisse solare prevista domani…e che dire del devastante terremoto di Haiti?

Con gli emigrati indiani sul Riyadh-Mumbai

Per via di ritardi, coincidenze perse e sfighe varie, mi sono trovata per caso a Riyadh in attesa di un Air India diretto a Mumbai. A differenza degli altri aeroporti del Golfo, quello di Riyadh é semplice e sobrio come una moschea. Da fuori somiglia a un accampamento beduino. Non c'é traccia della ricchezza saudita, anzi l'unica lounge dove mi sono intrufolata per fare internet era decisamente deprimente. Alcuni dei computer non funzionavano e uno sceicco, seduto al mio fianco, si é pure lamentato dicendo ad alta voce che "persino in Bangladesh ci sono lounge migliori". Il volo per Mumbai, un Air India, era in ritardo di alcune ore, ma sul cartellone delle partenze non compariva nemmeno. L'ho individuato per l'assembramento di giovani emigrati indiani davanti all'imbarco con le valige di cartone. Si sa l'economia dei paesi del Golfo dipende dalla manodopera di centinaia di migliaia di asiatici. Evidentemente con quel volo stavano tornando a casa, molti nel nord tra Uttar Pradesh e Bihar, dove c'é piú povertá. A Riyadh non ci passano turisti e meno che mai diretti a Mumbai su un volo della compagnia di bandiera indiana. la mia presenza quindi ha incuriosito. C'erano solo altre due o tre donne, indiane, che viaggiavano insieme. E' stato un viaggio divertente. Era la prima volta che viaggiavo con “emigranti” indiani, quelli poveri e analfabeti, non gli ingegneri della Silicon Valley californiana. Per caso stavo poi leggendo il saggio di Vittorio Zucconi, Il caratteraccio, dove mette a nudo gli Italiani e l'Italianitá, ripercorrendo la storia recente. Non é passato poi tanto tempo quando i 'terroni" (per i lombardi) o i "Napuli" (per i piemontesi) arrivavano con il treno dal Mezzogiorno d’Italia con le valigie piene di olio di oliva e salumi. La stessa famiglia di Zucconi, emigrata a Milano dalla "lontana" Modena, si portava perfino la farina per fare i tortelli.
Il fatto che fossi da sola ha subito fatto scattare un allarme tra le hostess che mi hanno assegnato un posto vicino al finestrino in una fila a tre, vuota. Un malcapitato che doveva sedersi al mio fianco é stato immediatamente spostato, senza fiatare, in un altro posto. Nemmeno avessi la rogna. Mi ricordava il Pakistan quando nessun uomo osava sedersi vicino a me nei bus. Le hostess erano visibilmente irritate. Davano ordini come delle kapó naziste. Quando abbiamo lasciato lo spazio aereo saudita (dove vige il divieto di servire l'alcol) hanno portato la cena. Ho preso dei vino bianco (francese). Poi é iniziata una strana questua. Un passeggero mi ha dato il suo passaporto e mi chiesto a gesti di compilare la sua carta dell'immigrazione che era in Inglese, nome, cognome, residenza, numero del volo, eccetera. Quasi tutti erano mussulmani. Poi facevo una crocetta dove c'era da firmare. Per il resto del viaggio sono stata impegnata a compilare le schede e farle firmare. Mi sono guadagnata la gratitudine di mezzo aereo. All'arrivo a Mumbai molti di loro sono scesi con la coperta della compagnia aerea avvolta intorno alla testa, come fanno a Delhi la notte quando fa molto freddo. Una hostess, indiana, con la carnagione molto chiara, ha tentato di protestare. Uno di loro se l'é levata e lei l'ha raccolta con due dita con una smorfia di vero disgusto dipinta in viso.

Galgibaga, primi nati tra le Olive Ridley Turtles!


Fiocco azzurro (o rosa?) per le testuggini di Galgibaga, piccola spiaggia a sud di Goa, riserva naturale protetta per le Olive Ridley Turtles, la piú piccola specie di testuggine, purtroppo oggi in via di estinzione. Dopo la mezzanotte del 5 gennaio circa 60 uova sepolte sotto la sabbia si sono schiuse e i piccoli di circa 15 centimentri di lunghezza, hanno raggiunto subito il mare grazie al loro istinto naturale. All'evento hanno assistito una trentina di persone tra cui i guardiani che per due mesi hanno sorvegliato giorno e notte il nido (attualmente ci sono una mezza dozzina di nidi). Non tutte le uova deposte nella sabbia si sono schiuse. Sono rimaste 16 "ritardatarie" che hanno rotto il guscio solo dopo un giorno di "incubatrice". Le tartarughine sono state messe prima in una vasca e poi accompagnate in mare. Ma probabilmente erano un po' disorientate e c'é voluto un po' di tempo prima che capissero quale direzione prendere. Una forte onda le ha travolte e sono sparite. Chissá quante di loro saranno sopravissute all'oceano (e alle reti dei pescatori) e tra un anno ritorneranno su quella stessa spiaggia a nidificare.

Quando il Giornale abolisce la redazione degli esteri

Da qualche tempo ho cominciato a pentirmi di avere scelto il mestiere di giornalista. Dopo quasi tre decenni - ho iniziato che ero ancora minorenne - mi vengono dei dubbi. Ma davvero voglio continuare da grande a fare la pennivendola? “Sempre meglio che lavorare” come disse Luigi Barzini junior, il quale però mi risulta avesse un buon stipendio. Ero appena arrivata in India, quando una sera a casa dell’allora rappresentante della Piaggio, sono stata presentata a Tiziano Terzani, già versione mistica con kurta pijama bianca e barba da profeta. Era venuto giù dalla sua baita di Almore. “Ah, anche tu fai la pennivendola!” mi disse a mo’ di sfottò. Mi ricordo ci rimasi male e lo bollai come un arrogante pallone gonfiato. Ma ora capito il vero significato delle sue parole.
La crisi ha picchiato duro sui free lance che l’internet aveva già reso inutili. Sto parlando della carta stampata, ovviamente. Chiunque da qualsiasi posto può scrivere di qualsiasi cosa senza bisogno di un editore. Qualsiasi tipo di informazione è fruibile gratuitamente o con la sola fatica di tradurre dalla lingua d’origine. Chi è ancora disponibile a pagare per un pezzo a meno che non sei un premio Pulitzer o non hai un’intervista con Osama Bin Laden (meglio se scampato ad un overdose di cocaina in compagnia di un harem di viados)? Non c’è da stupirsi se ricevo ogni tanto proposte di collaborazione non pagate o compensate in maniera irrisoria. Un po’ di tempo fa una testata on line che si occupa di giovani imprenditori fai-da-te mi ha proposto 20 euro ad articolo in inglese “comprensivo delle spese per telefonate”. Ho risposto che questo è il mio mestiere e non un hobby, poi li ho mandati cortesemente a quel paese. Ma forse sono fuori tempo e fuori luogo. Il giornalista si è trasformato in un robot che smista migliaia di notizie al giorno, pesca quelle più sensazionali e le traduce in italiano. Ieri mi hanno comunicato che Il Giornale ha abolito la redazione degli esteri. Povero Montanelli. “E’ confluita nelle cronache italiane” mi ha scritto Angelo Allegri, il mio (ex) caporedattore degli esteri. Non so se anche altri quotidiani abbiano fatto già la stessa cosa. Non so neppure se lo si sa che al Giornale non c’è più una redazione esteri. Regalo lo scoop agli amici del Barbiere della Sera.
Mentre le cronache dalla provincia hanno ancora senso perché nessuno trova su internet il resoconto del consiglio comunale di Biandrate, le corrispondenze dall’estero sono in via di estinzione soprattutto per Paesi “lontani” dall’Italia, come lo è appunto l’India, scomparsa da tempo dal periscopio della Farnesina. Un po’ di anni fa un altro mio ex caporedattore, Marcello Foa, oggi famoso bloggista, mi disse che il quotidiano così come l’abbiamo conosciuto ha fatto il suo tempo. Si trasformerà in qualcos’altro, non più un foglio di informazione. In effetti non ha più senso e di fatto le vendite dei quotidiani nazionali sono a picco. Mi sento obsoleta, come una macchina da scrivere accanto a un computer.

Uno spettro si aggira per il Ramada Hotel



Questo post è stato ripreso da www.reportonline.it


La scorsa settimana i giornali indiani si sono divertiti a punzecchiare i comunisti che hanno organizzato una riunione internazionale all’hotel Ramada Plaza, ultima aggiunta alla pacchianeria a 5 stelle della capitale. Il soffitto della hall è dipinta come la Cappella Sistina a cui sono appesi enormi lampadari di cristallo. Anche se non è proprio buon gusto, è comunque sempre lusso. I “compagni” di una trentina di Paesi si sono riuniti qui tre giorni a porte chiuse a discutere della crisi del capitalismo mondiale. A fare gli onori di casa c’erano i due principali partiti comunisti indiani, il CPI e il CPI (M), dove “M” sta per marxista (non chiedetemi la differenza). Entrambi hanno subito una batosta elettorale a maggio che ha dimezzato la loro presenza in Parlamento e che li ha privati del potere ricattatorio sul Congresso che ora ha mano libera sull’agenda liberalista. E’ da 11 anni che si tiene questo meeting dove si può vedere seduti fianco a fianco comunisti israeliani e palestinesi. E che rappresenta, secondo me, l’unico forum internazionale per il “Lao People’s Revolutionary Party” del Laos oppure per il “Workers Party of Korea” della Corea del Nord. Non ci sono molti posti al mondo dove i nordcoreani possono salire su un podio…
Ovviamente sono andata a curiosare se c’erano italiani. Erano in tre e rappresentavano Rifondazione Comunista e il Partito dei Comunisti Italiani, i superstiti dei falce e martello italiani. “Non è che dobbiamo sempre stare con le pezze al culo…” mi ha detto Andrea Genovali, responsabile per le relazioni internazionali del PDCI quando gli ho fatto notare della scelta not-politically-correct dell’hotel di lusso fatta dai compagni indiani. Forse ha ragione, io sono rimasta ai tempi di Cipputi. Ma lo sfottò sui giornali è continuato. The Indian Express sulle colonne settimanali di “Delhi Confidential”, pettegolezzi dal mondo politico, fa sapere del “tour turistico” dei delegati comunisti al Forte Rosso organizzato dai padroni di casa. “Per i compagni che hanno vissuto nel regno del Comunismo e assistito al collasso dell’Unione Sovietica e dell’Europa dell’Est – scrive - è stata una opportunità unica di vedere da vicino la gloria dei Mughal e della loro caduta. Ogni parallelismo è casuale”.

Baronessa Ashton, ero già sulla notizia....


Preveggenza o fiuto giornalistico? Un paio di settimane fa avevo messo come "scatto del giorno" una foto dell'ex commissaria europea al commercio Catherine Ashton che era venuta a New Delhi per il summit economico Ue-India. Mi aveva colpito che durante la conferenza stampa un collega indiano si fosse riferito a lei chiamandola "baronessa" come c'era scritto anche sul segnaposto del tavolo dove siedeva insieme al suo omologo indiano Anand Sharma, un gentiluomo anche se non di origini nobiliari, grande anfitrione che spesso incontro al mattino presto durante il mio jogging al Lodhi Garden. Non sapevo neppure che la Ashton, laburista, aveva del sangue blu. Pochi giorni dopo la visita a Delhi, la baronessa è stata scelta a guidare la diplomazia di Bruxelles.

2012, non c’è posto per gli indiani (e italiani)

Sono andata a vedere 2012, l’ultimo cataclisma fantascientifico sul grande schermo, che questa volta fa morire l’intera umanità in giganteschi terremoti e tsunami. Si salvano qualche migliaio di persone, più o meno, tra cui uomini politici, scienziati, facoltosi russi, gli operai cinesi che hanno costruito le “arche” e una famiglia tibetana. Come negli altri film di Emmerich, il regista delle apocalissi, mi diverte vedere il posto e ruolo riservato alle varie nazionalità. Gli americani ovviamente sono sempre quelli più potenti, ma per la prima volta compare anche il G8 (che è stato ora è stato scavalcato dal G20, ma al tempo delle riprese era ancora il principale forum). Solo le otto nazioni più potenti della terra vengono messe al corrente della fine del mondo. La Cina – superpotenza emergente – avrà il compito di preparare il piano di fuga e costruire le indistruttibili “arche” sotto la supervisione Usa e con i soldi dei ricconi che per salvarsi sborsano un miliardo di dollari a posto (solo?). Però i cinesi sono dipinti come “cattivi”, primo perché picchiano e deportano dei tibetani e secondo perché vorrebbero lasciare a terra gli operai che hanno costruito l’arca. I russi come al solito vengono dipinti come rozzi donnaioli senza scrupoli e convinti che con i soldi si possa comprare tutto. Poi c’è l’assoluta novità: per la prima volta vengono riconosciute le conoscenze e capacità scientifiche dell’India. Il primo a scoprire gli effetti di un’esplosione solare sulla crosta terrestre è un astrofisico indiano, a cui viene promesso un posto sull’arca, ma poi viene bidonato dagli americani e con lui la sua famigliola. In effetti è quello che sta avvenendo, gli americani sfruttano i cervelli indiani a poco prezzo e non mostrano nessuna riconoscenza. Messaggio per Manmohan Singh: non ti fidare di Obama. Per di più l’India e anche l’Himalaya spariscono dalle cartine geografiche insieme al resto delle terre emerse eccetto l’Africa (altro messaggio). Tutti i leader del G8 si salvano, a parte il presidente Usa che rimane a terra per solidarietà con i suoi connazionali e…indovinate chi altri? L’italiano che assiste insieme al Papa alla distruzione di piazza San Pietro. Forse Hollywood ha tentato di fare una rivalutazione dell'immagine di Berlusconi oppure non lo volevano sull’arca?

Fuksas, per favore salvaci dal traffico


In questi giorni il traffico a Delhi sembra impazzito. Per una settimana il cielo è stato oscurato da una spessa coltre di smog causato dai gas di scarico, ma anche dalla foschia tipica di questa stagione. Ieri mi trovavo in scooter sull’Aurobindo Marg, ridotta a un percorso di rally dai lavori della metropolitana. Eravamo tutti fermi. La gamba del motociclista davanti a me era incastrata tra un carretto di un ambulante di verdura e i nuovi mega autobus Tata “Marcopolo” con aria condizionata che hanno un tubo di scappamento largo come una grondaia. Viene fuori un getto di calore che sembra quello di un Boeing. Meno male che i bus vanno a metano e non a diesel. Improvvisamente mi è venuto in mente l’architetto e urbanista Massimiliano Fuksas, quello delle Nuvole dell’Eur e delle Bolle di Bassano del Grappa, ma anche quello della chiesa di Foligno, nuovo ecomostro di cemento nelle campagne umbre. Fuksas era stato invitato la scorsa settimana dall’Ambasciata Italiana per tenere una conferenza a New Delhi e a Mumbai. Nonostante la sua fama internazionale, non mi sembra abbia nessun progetto in India. D’altronde qui l’architettura contemporanea di ispirazione occidentale si è fermata a Le Corbusier. Per fortuna - aggiungo - vista la discutibile eredità lasciata dall’architetto franco-svizzero a Chandigarh, capoluogo del Punjub che, però - lo riconosco - è la più pulita e ordinata delle metropoli indiane. Tutto sommato in India ci sono (ancora) pochi obbrobri edilizi, anche perché non ci sono soldi per opere faraoniche e nelle megalopoli come Mumbai oltre la metà della gente vive ancora nelle baraccopoli o per strada. Rispondendo a una domanda di una studentessa di architettura, Fuksas si è lamentato del livello di traffico di Delhi e della qualità dell’aria. “Dovete fare qualcosa, così non potete andare avanti” ha detto con una certa enfasi. Seduto al suo fianco c’era l’architetto indiano Raj Rewal, che a differenza dell’archistar italiana, ha un approccio più umanistico e soprattutto più ecologico, ma stranamente non ha detto nulla. D’altronde che dire? A Delhi ci sono dai 15 ai 20 milioni di abitanti a spanne, perché è impossibile contarli. Come tutte le altre metropoli attrae come una calamita i poveracci e diseredati delle campagne di Up e Bihar. Ogni giorno si aggiungono mille nuovi veicoli immatricolati. Meno male che c’è stata una battuta di arresto con la crisi. A ottobre però le vendite di auto sono schizzate del 34 per cento con buona pace delle industrie automobilistiche straniere che puntano sull’India. E non è neppure ancora arrivata la Nano perché devono ancora costruire la fabbrica! Sabato scorso il Times of India ha pubblicato uno studio sulla “grande Delhi” (NCR si chiama ovvero National Capital Region) che comprende anche le città satelliti in un cerchio dal raggio di 300 km. Si prevede una popolazione totale nel 2011 di oltre 48 milioni di persone che nel 2021 salirà a 64 milioni e nel 2031 a 86 milioni. Decine di milioni di pendolari per lavoro, per studio e per altre ragioni ogni giorno confluiranno verso il centro di Delhi. Presto molti di loro avranno l’auto che oggi non si possono permettere. Penso che le attuali tangenziali e sopraelevate in costruzione saranno ridotte a vicoletti e ponti dei sospiri come a Venezia. Non ci sarà più una città, ma un asfissiante e assordante labirinto di asfalto. Che fare? Disincentivare l’uso dell’auto? Nessuno al mondo ci è finora riuscito. Una soluzione sarebbe disegnare le città secondo nuovi criteri, evitando gli errori e orrori urbanistici che noi in Occidente abbiamo commesso in passato. Perché non provare a rimpiazzare gli shopping mall, business center e grattacieli alla Dubai con lo shopping on line e il telelavoro? Tante isole verdi residenziali, dove il posto di lavoro è a casa o al massimo a dieci minuti a piedi. Con internet e fibre ottiche è possibile. E per fare la spesa c’è il negozietto del quartiere o si possono tenere gli ambulanti con il carretto che si vuole eliminare perché rallentano la circolazione. Utopia? Secondo me si può, basta che gli urbanisti e architetti pensino un po’ di più ai bisogni della gente e meno agli effetti della luce che filtra da un loculo di cemento.

Riporto qui di seguito il commento di Corrado Colombo ricevuto per email:

Vagabondando qua e là ho letto la nota sul suo blog relativa alla conferenza di Fuksas. Detto da architetto, complimenti per non essere caduta nella bufala del “grande maestro”. Premetto che io sono proprio un architetto da barzelletta, che parla da architetto e difende percezioni che la maggior parte della gente non condivide assolutamente, ma di fronte a certe prese per i fondelli mi ribello.
Io, devo dire, di fronte agli edifici di Chandigarh mi sono abbastanza emozionato, e forse proprio per la poetica tensione dialettica che percepivo tra la sua aulicità (e, d’altra parte, come ignorare storicamente l’enfasi che Nehru doveva pretendere nella nuova capitale) e l’incontro con il quotidiano. D’altra parte sono sempre stato affascinato dalla contaminazione, anche impropria, tra l’eccelso e il quotidiano, siano gli evangelici mercanti alle porte del tempio siano i venditori ambulanti sulla piazza dei tre poteri di Brasilia. Ad Ahmedabad, in un contesto fisico ed in un programma diverso, Le Corbusier ha comunque a mio avviso dato prova di forte capacità di confronto con la matericità propria del luogo.
Comunque, chiuso l’inciso, torniamo a Fuksas. Sono profondamente irritato da come la gente, anche colta e animata da rimarchevoli sensibilità in altri campi, tenda a farsi prendere in giro quando si parli di architettura e trasformazione dell’ambiente.
Da un lato, il gretto conservatorismo estetico della piccola borghesia che cerca il conforto dei valori consolidati (quante case abbiamo visto di amici “colti”, un po’ country, un po’ etniche, qualche pezzo di design storico conclamato… insomma rassicuranti) dall’altro l’acritica approvazione di qualunque cosa faccia il primo furbone che sappia usare come si deve la comunicazione.
Fuksas ne è l’esempio classico. Mi spiace dire cose che potrebbero dire Bondi o Berlusconi, ma le sue comparsate dal divo Santoro sono state una operazione degna del migliore gioco delle tre carte come si faceva tanti anni fa a Porta Palazzo. Balle, balle, balle e quattrini in tasca. Il nuovo vate dell’architettura, benedetto da San Michele (non lo amo molto, si capisce, vero?) è uno tra gli italiani con i redditi più alti almeno negli ultimi 3 – 4 anni. Anche nei deliri dei grandi maestri dell’architettura moderna c’era comunque una base di superego esasperato, di delirio di onnipotenza, ma era comunque finalizzato e subordinato al senso di una finalità etica generale, di una missione in cui il vantaggio personale non trovava spazio. Le Corbusier era convinto di poter cambiare il mondo, ma quando morì credo che l’unica ricchezza che lasciò ai suoi eredi sia stata una serie di disegni, oltre al modesto capannone di Jouan les Pins. Luis Kahn, tanto per restare a grandi che hanno segnato con tracce dell’architettura contemporanea il subcontinente indiano, morì stroncato dalle fatiche dei suoi viaggi in una stazione, sommerso dai debiti contratti per perseguire i suoi sogni.
Le nuove “archistar” (parolaccia, la uso scusandomi tanto per farmi capire) che riempiono il mondo con grattacieli storti, aggrovigliati, piegati, coricati… raccontandoci pure che sono concepiti con particolare sensibilità energetica (come se anche un bambino non capisse che il miglior approccio energetico consiste nel non costruire milioni di metri cubi utili solo a produrre profitto) con spregiudicatezza da couturiers milanesi, accumulano ricchezze personali da big dell’informatica.
L’etica di quanti sottoscrissero la Carta di Atene indubbiamente era un’altra cosa.
Due ultime notazioni. Può darsi che al momento Fuksas non abbia commesse in India,ma se è venuto a fare una conferenza di sicuro finirà per averla. Il nostro amico non fa viaggi per diporto!
La seconda è più seria. Credo sia importante, molto importante, pensare che i bisogni della gente non siano, e non debbano assolutamente essere, antitetici agli effetti della luce che filtra dalle aperture di uno spazio. Non può esser così. Non lo è mai stato da quando l’uomo cominciò a mettere le pietre l’una sull’altra, non lo è stato nella costruzione delle abbazie cistercensi, in cui, con l’applicazione dei principi di san Bernardo, l’uomo, costruttore secondo un principio divino, usava al meglio i materiali, la luce, la tettonica, gli schemi di riferimento per costruire spazi poetici e funzionali, rapportati al territorio ed al paesaggio in termini utilitaristici e di arricchimento nella trasformazione. Non lo è infine i grandi o quotidiani esempi di architettura contemporanea, della nuova costruzione, del riuso o comunque della reinvenzione del dialogo con la città esistente.
Facciamo attenzione, è importante, il costruire è un atto magico e poetico, l’uomo non se ne può privare se non con prospettive suicide, di perdita di considerazione per sé stesso e per la generazioni future. I tecnicismi (e il soddisfacimento dei bisogni può facilmente diventarlo) uccidono la globalità e la ricchezza di uno degli atti più importanti dell’agire umano.
Complimenti ancora per il suo lavoro che seguo ed apprezzo.

Dante si è fermato a a Mumbai

Mi piacerebbe veramente sapere quanti sono a conoscenza che a Mumbai esiste un manoscritto della Divina Commedia. Pare che al mondo esistano solo due copie originali del poema dantesco, una a Milano e uno appunto in una cassaforte dell’Asiatic Society di Mumbai. Di quella autografa non se ne sa nulla.
Proprio in questi giorni si è chiusa una mostra dedicata al prezioso volume del 1300 e ad altri tesori italiani, tra cui un manoscritto di Galileo Galilei e uno di Cicerone. Peccato che sia stato un evento tra pochi intimi. Almeno così mi pare da una breve ricerca sui giornali indiani che sono quasi tutti su internet. Peccato perché Dante Alighieri è uno dei nostri migliori ambasciatori della cultura e storia italiana all’estero. In un articolo di presentazione della mostra su The Indian Express (vedi qui) ho letto che Mussolini, ancora popolare qui in India, aveva offerto un milione di sterline per comprare il libro dalla fantomatica Asiatic Society di Mumbai, che è un club esclusivo di intellettuali retaggio dell’epoca coloniale. Il manoscritto dantesco (450 pagine illustrate rilegate in un volume in seta e pelle) era stato regalato nel 1820 da un noto collezionista e antiquario inglese che non voleva riportarlo in patria via mare. Non so se qualcuno l’abbia mai studiato e se sia disponibile una copia digitale, come mi auguro, in modo che sia accessibile agli accademici. E’ decisamente uno dei misteri della misteriosa India.
Quando ho proposto la notizia ad alcuni media italiani per cui collaboro, non c’è stata nessuna reazione. Evidentemente in Italia sono tutti impegnati tra viados e cocaina per occuparsi di un vecchio e polveroso manoscritto di Dante che giace nell’oscurità di una cassaforte di una banca di Mumbai. E che già sette secoli fa denunciava i vizietti della classe dominante.
PS A proposito di viados e cocaina segnalo questo gustosissimo pezzo di Cristiano Gatti sul Giornale

Salviamo Khan Chacha!

Uno dei miei posti preferiti al Khan Market è stato costretto a chiudere i battenti per una disputa immobiliare. La “kebaberia” Khan Chacha, un bugigattolo gestito da una famiglia musulmana, molto popolare tra i giovani e meno-giovani-ma-squattrinati come me, era uno dei pochi sopravissuti all’avanzata dei negozi di lusso e ristoranti superfighi del mercato più costoso di Delhi. D'altronde come possibile vendere panini di kebab a 35 rupie in un posto dove gli affitti sono come sulla Fifth Avenue? Però Khan Chacha faceva tendenza, un po’ come Luini, i panzerotti più buoni di Milano, dietro piazza Duomo. Era un posto diciamo, non proprio per i poveri, ma per alternativi, compresi giovani politici come Sachin Pilot o i kashmiri Abdullah, padre e figlio, o l’ecologista Nafisa Ali. Il proprietario dello stabile ha detto che non c’era nessun contratto e ha cacciato su due piedi Banda Hasan e i suoi due figli come è spiegato in questo articolo. Chissà se apriranno altrove? Intanto su Facebook sono già oltre 12 mila i fan di Khan Chacha…salviamolo!

Delhi, the “city of flyovers”

Stamattina ho letto sul giornale che Sheila Dikshit, la popolare governatrice di New Delhi, vuole fare della capitale una “city of flyovers”. Ero un po’ addormentata e pensavo di aver letto “flowers”, invece no. Ha detto proprio: “flyovers”, in inglese “sovrappasso”, un termine che ora mi è familiare, ma che secondo me usano solo qui. Si augura insomma che i visitatori che torneranno dai Giochi del Commonwealth in programma nell’ottobre 2010 portino a casa il ricordo di New Delhi come “città dei cavalcavia”. Ho già scritto di come questa città diventerà presto invivibile, soprattutto quando arriveranno le Tata Nano, non ancora in produzione, per fortuna. In questi giorni, vigilia di Diwali, anche i tanto lodati “flyovers” sono intasati dal serpentone di acciaio e di smog. Non mi aspettavo che una signora d’animo gentile, e per questo molto amata dai suoi concittadini, potesse essere orgogliosa di una città deturpata da cavalcavia, svincoli e sopraelevate di cemento armato. Seppur ripuliti da mendicanti e vacche, si tratta di obbrobri urbanistici e soprattutto delle barriere insormontabili per i pedoni. I sottopassi o passerelle pedonali sono stati praticamente dimenticati. O ci si arriva in macchina o non ci si arriva. Saranno pure necessari alla viabilità, ma cosi si trasforma una città a misura di auto e non più a misura d’uomo con buona pace delle industrie automobilistiche. “I flyovers eviteranno le code e faranno risparmiare benzina” ha detto Sheila annunciando trionfante che a novembre si potrà andare da Nehru Place fino all’aeroporto senza fermarsi a un semaforo. E anche senza vedere un fiore.

Yoga tantrico, ma che sarà mai?


Che l’India fosse un paese bacchettone, un po’ come da noi prima del 68, lo avevo capito. Ma non fino a questo punto. E’ successo che nel fine settimana mi trovavo a Rishikesh. Come al solito incuriosita dalla quantità di corsi di yoga, per cui Rishikesh è famosa nel mondo, sono finita in una lezione introduttiva di “Trika Yoga”, sottotitolo “esoteric yoga”. Intrigante, eh? L’orario, alle 9,30 del mattino mi andava bene, e poi come prima lezione era pure gratis. Mi aspettavo le solite contorsioni impossibili accompagnate da incomprensibili definizioni. Invece no, mi sono ritrovata davanti a una predica domenicale sulla corruzione della nostra società, sulla ricerca del materialismo, dell’esteriorità a discapito della conoscenza del nostro io. Parole che oggi neppure i preti di campagna più bigotti osano più pronunciare. Lo yogi, un giovane indiano, con British accent, era davvero un ottimo oratore. “Perché dedichiamo tanta attenzione al nostro corpo che è solo un involucro? E come se avessimo un mulo e invece di usarlo per trasporto, ce lo carichiamo sulle spalle tutto il tempo”. "Già ma lo yoga che c’entra?" mi sono chiesta abbastanza spazientita. Dopo la premessa Kushru Mistry è arrivato al punto. Yoga non è quello che si fa oggi “nelle palestre al ritmo dei Rolling Stones”, ma è una scienza esoterica, chiusa, accessibile solo a pochi adepti, “come la cabala per gli ebrei, il sufismo per i mussulmani e lo gnosticismo per i cristiani”. Lo yoga oggi sarebbe in via di estinzione, nonostante il proliferare di scuole e di maestri “che chiamano “yoga” una pratica che non è tale”. Chissà perché mi è venuta in mente la pizza, allo stesso modo ci vorrebbe una tutela della denominazione, ma l’esempio sarebbe stato irriverente. Secondo gli antichi maestri, “che avevano la pancia come vedete dalle foto appese qui ai muri” ogni "asana" (posizione) dovrebbe essere mantenuta per tre ore e 45 minuti in modo da mettere in contatto il nostro corpo con il resto dell’universo. Attraverso una certa posizione fisica e la concentrazione mentale attacchiamo la spina al sole o agli astri per ricevere l’energia di cui abbiamo bisogno”. Da ignorante come sono in materia, mi sono illuminata. Finalmente ho capito cosa è lo yoga, almeno credo. Ma il bello doveva venire. Dopo aver pubblicizzato il corso (ho visto dopo sul website che è una scuola internazionale ed è stata fondata da un ingegnere romeno che astutamente si è battezzato Swami Vivekananda, come il filosofo ottocentesco), Kushru ha detto che terrà anche un workshop di yoga tantrico, non incluso nel prezzo, di una settimana, dedicato a coloro (meglio coppie "così possono mettere a frutto subito quanto imparato") che vogliono potenziare la propria energia sessuale. “Qui non è come in Thailandia – ha detto con un certo imbarazzo – non posso insegnare certe cose senza che la gente mormori… non posso neppure mettere il corso sulle locandine…le voci corrono veloci qui a Rishikesh. Sappiatelo, inizia il 19 ottobre, costo 9 mila rupie, sono previsti anche dei filmati, ovviamente a casa mia…”. Di fronte al mio sguardo allibito poi ha aggiunto: “non sono porno, non preoccupatevi, è solo yoga!”.

La bomba H e il deserto di Pokhran


Nell’agosto del 2005 mi sono trovata per caso ad attraversare il deserto di Pokhran o Pokharan, che si trova più o meno a metà strada tra Jodhpur e Jaisalmer, in Rajasthan. Non è proprio un deserto, ma una tundra dove di tanto in tanto ci sono capanne, cammelli al pascolo e gruppi di donne con brocche d'acqua in testa. A qualche decina di chilometri dalla strada principale c’è un poligono militare usato per il test nucleare del 1974 di Indira Gandhi e per quello dell’11 e 13 maggio 1998 voluto dalla destra indu nazionalista e che colse l’intero mondo di sorpresa. Una delle mie più grandi curiosità da quando sono in India era di vedere il posto dove è avvenuta l’esplosione sotterranea dove pare ci abbiano costruito anche un tempio alla dea della potenza Shakti. C’è una sola foto, dell’ex premier Atal Behari Vajpayee, con il suo tunicone bianco, su un ponticello di legno che sovrasta una profonda frattura nel terreno. Ovviamente l’operazione Shakti è uno dei segreti meglio custoditi in un paese che si è fatto la bomba atomica da solo (con qualche input dall’Urss) in barba a tutte le regole internazionali. Chiedendo alla gente, con gesti alla Fantozzi, dove era esplosa “the bomb”, ho gironzolato un po’ per le strade dei villaggi, fino a quando sono stata fermata da un tizio, probabilmente un poliziotto in borghese, che mi ha impedito di andare oltre. Non ho visto nessun soldato e neppure dei segni della presenza di una base militare. Sempre da finta turista svampita ho poi chiesto a un po’ di persone che ho incontrato cosa si ricordavano dell’esplosione che - stando ai dati ufficiali - avrebbe provocato una scossa di magnitudo 4 o 5. Nessuno però aveva avvertito un terremoto o anche solo un boato che ha fatto tremare la terra sotto i piedi. Come era possibile? Fanno scoppiare una bomba atomica sotto la sabbia a dieci chilometri da te e non te ne accorgi neppure?
A confermare i sospetti che avevo avuto allora è stato uno scienziato, Santhanam, che nel 1998 aveva preparato il sito e istallato la strumentazione. Ad un seminario a Delhi un mesetto fa, dopo ben 11 anni, ha sputato il rospo. Uno dei cinque test, Shakti I, quello che doveva provare la bomba all’idrogeno, è stato un fallimento. “It was a fizzle” per usare la sua espressione. Un petardo, insomma, invece del botto da 45 kilotoni (tre volte Hiroshima) dichiarati ufficialmente. Ovviamente la rivelazione shock è stata smentite dagli altri scienziati nucleari e dallo stesso ex presidente Abdul Kalam, il “missile man” indiano. Il governo ha minimizzato per paura di scoprirsi con il Pakistan, proprio ora che Islambadab avrebbe acquisito nuove superiorità militari grazie ai soldi americani destinati alla lotta agli estremisti islamici. In una intervista ad Outlook di questa settimana K.Santhanam svuota il sacco e in maniera abbastanza brutale dice “che la bomba da 45 kilotoni è una evidente bugia, una BUGIA a caratteri cubitali”. Una delle prove è che non si è formato un cratere (quello che volevo vedere io…). A quanto pare, la confessione non è stata una sorpresa, molti lo sapevano, ma diciamo non avevano mai “osato” dirlo che era una bufala. L’unica cosa non chiara è perché Santhanam abbia parlato solo ora. Forse vogliono rifare il test? Qualcuno vuole screditare l’arsenale militare indiano? Purtroppo l’intervistatore non glielo ha chiesto.
Negli ultimi tempi c’è molta fibrillazione nel mondo della scienza. A luglio è stato varato il primo sottomarino nucleare made in India , che di “nucleare” ha però solo il nome, visto che il reattore nucleare da usare come propulsione deve ancora essere progettato e costruito. Pare che la moglie del premier Singh, chiamata a fare da madrina al varo, abbia varato un cassone di metallo praticamente senza motore. Ma tutti i media, passivamente, hanno celebrato l’arrivo dell’India nel club delle potenze dotate di sottomarini nucleari.
Poi c’è stata la sonda lunare Chandrayan I che il 31 agosto ha perso il contatto con la base di Bangalore. E’ durata quasi un anno: secondo gli esperti è già tanto e comunque prova le capacità dell’India ad andare nello spazio a low cost. Mentre infuriavano le polemiche sul fallimento della prima missione lunare, ecco piombare dal cielo la notizia del ritrovamento di molecole di acqua grazie a uno strumento di misurazione piazzato dalla Nasa. Pare che setacciando una tonnellata di suolo lunare si ottenga un bicchiere d’acqua. Intanto nel deserto del Rajasthan muoiono di sete.

Così scriveva Marx nel 1853

“Hindostan is an Italy of Asiatic dimensions, the Himalayas for the Alps, the Plains of Bengal for the Plains of Lombardy, the Deccan for the Apennines, and the Isle of Ceylon for the Island of Sicily. The same rich variety in the products of the soil, and the same dismemberment in the political configuration.

Karl Marx, New York Daily Tribune, June 25, 1853.

"L'India è un'Italia di dimensioni asiatiche, l'Himalaya sono le Alpi, la pianura del Bengala è la pianura lombarda, il Deccan sono gli Apennini e l'isola di Ceylon è la Sicilia. C'è la stessa varietà di prodotti del suolo e la stessa frammentazione politica".

Viva i Bhil, l’India ha fermato la cafonata della Perego

Non ho ben capito quale è stato il motivo, ma pare che l’India non abbia dato il visto ai partecipanti del reality show di Paola Perego che doveva andare in onda su Canale 5. Questa nuova idiozia televisiva, che però fa audience e quindi soldi, si chiama “la Tribu Missione India” e in teoria dovrebbe svolgersi in un villaggio della comunità tribale dei Bhil, probabilmente in Gujarat, dove ci sono molte comunità nomadi, diciamo, molto “folkloristiche”. Non sono però riuscita a sapere la località esatta, a quanto pare la cosa è segreta. I partecipanti sono veramente assortiti, c’è un principe sabaudo, un calciatore, un giornalista, alcune attrici che si devono riciclare, altre in cerca di notorietà, una ex miss Italia e una modella marocchina. Ovviamente tutte bellissime, giovani, sexy e spregiudicate.
Ho letto che il gioco consisteva nel vivere a contatto con la “tribù” e imitare il loro modo di vita. Pare che i Bhil usino ancora arco e frecce, non so se per impressionare i turisti. Portano abiti coloratissimi e pesanti ornamenti, un po’ come molte comunità in Gujarat e nel vicino Rajasthan. Immagino quindi che la “figata” ideata da Mediaset consista nell'obbligare i concorrenti a usare arco e frecce, portare gli otri d’acqua sulla testa, mungere le bufale e, perché no, magari anche raccogliere gli escrementi bovini per strada e impastarli con le mani per fare le famose “formelle” da usare per il fornello. Chissà se la conduttrice Perego, un'altra bellona, ci ha pensato anche a questo particolare. La prova della raccolta letame, raccontata dall’inviato Brosio, impennerebbe l’audience. Purtroppo non ho mai visto un reality (nel mio quartiere non ricevo canali televisivi italiani, neppure Rai International - e mi dispiace perché credo che qualcosa di buono ci sarà pure) e non ne capisco nulla di queste cose. Ma trovo la "trovata" della tribù indiana veramente di cattivo gusto, oltre che non è per nulla “politicaly correct” nei confronti degli ignari Bhil. Mi complimento quindi con le autorità indiane che hanno opposto resistenza a questa ennesima cafonata italiana.
PS Nel frattempo ho letto che i preparativi della trasmissione abortita sono costati dai 2 ai 3 milioni di euro. Spero che almeno qualche briciola sia rimasta ai Bhil...

Emigrati in India, cornuti e mazziati

Mentre cercavo una cosa sul sito internet del consolato generale italiano a Gerusalemme ho scoperto l’esistenza di una “IT-Card”, una carta sconti per gli emigrati che vogliono andare in vacanza in Italia. Lo chiamano “turismo di ritorno”. Era stata introdotta dal ministero degli esteri ben due anni fa e bisogna richiederla ai consolati di appartenenza. Ma io non ne sapevo nulla. Non solo. Da un minisondaggio tra connazionali ho poi scoperto che neppure loro ne sapevano nulla e trovavano scandaloso che non fossimo stati informati. Ho conservato la fantastica mail di risposta del mio amico siciliano che sta a Jaipur: “Io singeramente non ne sapevo un cazzo, scusami se sono scurrile”. A parte lo smacco professionale per la mia ignoranza come giornalista, ci sono rimasta veramente male. Ma come? Per una volta che si fa qualcosa per gli sfigati di italiani all’estero, manco la fanno sapere! Qualcuno - evidentemente di quelli che non hanno bisogno di sconti quando vanno in Italia - mi ha detto che era una “manovra elettorale”. Altri mi hanno detto che serve a ben poco, c’è una convenzione con Gardaland, gli Autogrill, Hertz… ma anche le ferrovie (qui ci sono le informazioni). Se ho ben capito c’è il 20% di sconto sui treni. “Meglio che un calcio nelle palle” avrebbe detto mio nonno in dialetto piemontese sfoderando la pragmatica saggezza sabauda. Quando sono andata in Italia a Ferragosto come “turista di ritorno” ho speso una fortuna tra Freccia Rossa e eurocity. Mi avrebbe fatto comodo uno sconticino. “Ma tanto dal 31 dicembre la convenzione con TreniItalia scade” mi hanno informata dal consolato di Delhi forse per consolarmi (c’è pure il gioco di parole). Veramente, cornuta e mazziata.

Vacanze Italiane


Dopo un anno e mezzo di assenza sono tornata in Italia per la settimana di Ferragosto. Questa è la cronistoria dello shock culturale.

12 agosto – Malpensa. Arrivo tra un nugolo di neo spose indiane con i braccialetti tintinnanti e rattrappiti contadini dell’Haryana in babbucce dorate. Al ritiro dei bagagli ci sono cassette pieni di manghi profumati. E’ quasi mezzogiorno. L’aeroporto, ormai orfano di Alitalia, è deserto dentro e fuori. Un sole lancinante e folate di aria calda mi accolgono. Il cielo è come quello dei Tropici. Ma sono arrivata in Padania o a Mikonos?

13 agosto - Milano. Come per magia non c’è neppure un graffito sui muri del centro di Milano. Effetto Moratti, mi dicono. In piazza Duomo ci sono delle biciclette gialle da affittare, ma per pagare bisogna rivolgersi all’ATM. Cerco un bancomat, forse si pagherà con la carta. Una coppia di turisti francesi poi mi spiega che ATM sta per Azienda Trasporti Milano e non è una “atm machine”. Dimentico la figuraccia e prendo un tram, quelli senza aria condizionata, per andare verso viale Certosa. Non ricordo nulla di Milano, ma mi ritrovo per caso davanti a un mega centro commerciale nuovo di zecca. Decido di comprarmi un telefonino. Scoprirò dopo qualche giorno che i cellulari sono l’unico bene che va come il pane nonostante la crisi e che le vendite sono triplicate. Ho fatto quindi la mia parte.

14 agosto - Il telefonino è un Nokia 5800 “XpressMusic”, una delle ultime meraviglie tecnologiche, anche se le batterie durano nemmeno un’ora…. Il dramma è l’attivazione della scheda TIM che mi è stata data in omaggio. Per uno che piomba in Italia, diciamo dopo cinque o sei anni e che si è perso tutte le puntate precedenti, è veramente come arrivare dalla luna. A forza di pubblicità, pare che anche gli ultranovantenni nelle case di riposo sappiano cosa è il Wap Tim. Purtroppo io no. Al 119 della Tim parlano troppo veloce e con termini a me incomprensibili. “Guardi non capisco nulla di quello che mi dice, io vorrei solo navigare in internet dal mio telefono” ho detto ormai disperata a una gentile signorina che senza prendere fiato replica: “allora le attivo la promozione Alice-tim-wik-diecigigabait-solo-due euro-alla settimana-ma-se-non-la vuole più-lo deve-dire-perché-vengono-prelevate-automaticamente”. Mi ricordo che nei call center indiani si insegna a come velocizzare al massimo le telefonate con il cliente. Beh, anche i call center Tim (ammesso che siano in Italia e non in Romania) non c’è poi male.

15 Agosto – Ceres, 40 km da Torino, valle di Lanzo. Il fiume Stura è di un azzurro color stoviglia, mi viene da dire citando il compaesano Gozzano. Mi viene perfino voglia di buttarmi dentro, ma le acque che arrivano dal ghiacciaio non-mi-ricordo-quale, sono ancora ancora più fredde di quelle del Gange. Ma sono ottime per le trote. Sono nel buen retiro estivo dei torinesi. Quintessenza della piemontesità unita alla bonaria rozzezza dei montanari che scrivono “vendesi tomma”. Qui non sanno manco cosa sia l’internet. Non c’è bisogno di scappare sull’Himalaya, basta mezzora a nord di Torino per uscire dal mondo. A Ferragosto, la festa dell’Assunta, fanno un falò enorme sulla piazza del Paese davanti alla bella chiesa barocca color panna e nocciola. Bruciano una catasta di legno, mentre due coppie di giovani, i “priori”, ballano un valzer in tondo al suono della banda del paese. Se le fiamme arrivano a bruciare dei nastri colorati issati sopra un altissimo tronco e intrecciati di rami di ginepro, è destino che si sposino. E dopo ci stupiamo che in India si accoppiano a seconda dello zodiaco! Dopo il falò, mentre mi bevevo un bianchetto nel bar della piazza, vengo approcciata da un romeno che mi scambia per un’immigrata straniera. “Non ti ho mai vista qui, anche tu vieni da fuori, io sono solo, perché non facciamo due chiacchiere?”.

16 Agosto – Bracchiello (tre km da Ceres). I miei genitori invitano un po’ di amici per l’aperitivo nella loro baita ristrutturata. Si prende l’Aperol con il ghiaccio e una fetta di limone. Dopo mezz’ora scappo in bagno dove ci starò per tutta la giornata. A salvarmi sono delle pillole al carbone (non scherzo, era carbone puro, macchiava anche di nero) che il medico aveva consigliato a mio padre quando era venuto a New Delhi per evitare il famigerato “delhi belly”, il mal di pancia che colpisce quasi tutti gli stranieri appena arrivati in India.

17 Agosto – Da quando sono arrivata non ho ancora visto una nuvola. C’è un cielo da cartolina e alle sette di sera il sole cuoce ancora le rocce. Sulla montagna di fronte ci sono delle chiazze bianche. Sono nevai superstiti. Mi dicono che nessuno in paese si ricorda delle nevicate così abbondanti come quelle dello scorso inverno. Metri e metri di neve. Parte dei boschi sono stati distrutti dalle slavine. Decido di andare a toccare la neve a Pian della Mussa, in cima alla vallata dove nasce la Stura. E’ stranissimo, di solito a Ferragosto, qui ci sono i prati in fiore. Invece c’era un nevaio grande come due o tre campi da calcio che si stava sciogliendo sotto il sole torrido. Un tizio, in costume e con i bastoncini da sci, era nel bel mezzo della distesa bianca a prendere il sole.

18 Agosto – Mi è venuta voglia di andare al mare. Da Milano a Bologna prendo la Freccia Rossa, un’ora di viaggio senza fermate per la modica somma di 40 euro. E’ la mia prima volta con l’alta velocità italiana. Nei braccioli dei sedili c’è anche la presa elettrica per caricare il telefonino...visto che le batterie durano cosi poco. Mi chiedo però chi se lo può permettere e soprattutto che fine hanno fatto i treni per i pendolari.

19 Agosto – Milano Marittima – Non pensavo ci fosse ancora la prova del look come negli Anni Ottanta della Milano da bere. Nel buen retiro estivo dei milanesi c’è il solito via vai di bonazze, calciatori e lei-non-sa-chi-sono-io. Purtroppo io ho scoperto la costa romagnola solo tardi quando ormai ero espatriata. Come tutti i piemontesi si andava piuttosto nella sobria e molto meno godereccia Liguria. Mi dicono che a Milano Marittima c’è il famoso Pineta Club Discoteca, locale per modaioli. Ci arrivo all’una di notte facendomi largo tra la folla. Ci sono dei locali, tipo birrerie che alla sera si trasformano. Le cubiste ballano sui tavoli, appese ai lampioni. Va di moda indossare dei Borsalini bianchi venduti dai vucumprà. L’atmosfera è giusta, ma manca qualcosa, non lo so. Mi sembra tutto un po’ finto. Davanti al Pineta ci sono degli armadi con due gambe e occhiali scuri. Basta un cenno del sopracciglio per fulminare con lo sguardo il mio accompagnatore e bloccarlo ancor prima che pensasse di mettersi in fila per l’ingresso. Ho visto che l’occhio del bodyguard si è abbassato sul suo marsupio. Bocciato. Sarà bocciato anche la sera dopo per il camiciotto a scacchi. Via libera invece per me che indosso una t-shirt con il faccione blu di Shiva e una borsa di cotone giallo con un OM costata 30 rupie (mezzo euro) comprata al mercatino di Rishikesh. Trendy, molto trendy.