Per favore ridateci i risciò in Chandni Chowk


Era da un po’ di tempo che non andavo nella “città vecchia”, come chi abita nella “nuova” Delhi chiama la storica Shahjahanabad, quella del Forte Rosso e della Grande Moschea, le due principali attrazioni turistiche della capitale. Il bazar di Chandni Chowk, che all’epoca di Shah Jahan, era la “via Montenapoleone” dell’impero mughal, adesso è quello che si può immaginare. Tuttavia conserva il suo fascino con le sue haveli semi-diroccate e le viuzze ricolme di sete, pietre preziose e spezie.
Preso da una furia modernizzatrice, il Municipio da qualche anno sta cercando di cambiare il volto della metropoli in vista delle Olimpiadi del Commonwealth del 2010. Prima c’è stata l’offensiva contro le mucche, macachi e cani randagi, tutte fallite. Poi la guerra all’abusivismo a colpi di demolizioni e sigilli alle serrande. Adesso la sindachessa Sheila Dikshit, da oltre 10 anni al potere, ce l’ha con i risciò a pedali colpevoli di creare ingorghi nelle strade, di sostare selvaggiamente negli incroci e di rallentare il passo delle mega auto che l’industria indiana intende vendere alla middle classe. Circa un anno fa ha messo al bando i pedalatori di risciò dalla strada principale di Chandni Chowk sostituendoli con dei minibus (non tanto mini) a metano di colore verde che fanno la navetta su e giù al costo di 5 rupie per corsa. Il problema è che sono tantissimi e il risultato è che finiscono per provocare ulteriori intasamenti soprattutto quando sostano in doppia fila per aspettare i passeggeri. Almeno prima era possibile fare lo slalom tra i risciò a pedali che saranno “disumani”, è vero, ma almeno non avevano il clacson e non ti stiravano sotto.

Traffico a New Delhi, fino a quando vogliamo andare avanti?


Vorrei ritornare sul problema urbano del traffico a New Delhi e in genere nelle nuove metropoli indiane e asiatiche. Lo so che è risaputo e anche un po’ banale e poco “sexy” dal punto di vista giornalistico, ma ho l’impressione che non si abbia purtroppo presente la gravità della questione. O meglio la si preferisce evitare. Inutile mettersi i paraocchi o far finta di nulla comodamente seduti nella propria auto con aria condizionata e portiere blindate. Ogni santo giorno che passa a New Delhi ci sono mille immatricolazioni in più. I veicoli che circolano quotidianamente nella capitale sono 4 milioni e mezzo su una popolazione di 12 o 13 milioni di abitanti. In certe ore le strade, anche ora che sono più grandi e scorrevoli grazie alle decine di sopraelevate, sono impraticabili. Il groviglio disumano di lamiere e di smog inghiotte ogni essere vivente come un orribile mostro puzzolente e assordante. A causa della mancanza di marciapiedi e sottopassi pedonali è praticamente impossibile avventurarsi a piedi. Non parliamo poi dei ciclisti.
Per favore fermiamoci un attimo e chiediamoci: vogliamo veramente andare avanti così? Almeno per Delhi (ma è lo stesso per Mumbai o Karachi) la viabilità non potrà che peggiorare. Milioni di famiglie non aspettano altro che comprare un’auto per infilarsi in un ingorgo. La Tata Motors al salone dell’auto a gennaio presenta la sua minicar da 2000 dollari. E’ la Topolino degli indiani. Il sogno delle quattroruote che innamorerà le famiglie della classe borghese. Che cosa succederà? Ogni giorno che passa a Delhi ci sono tre morti per incidenti. Dall’inizio dell’anno gli autobus guidati da autisti “impazziti” hanno messo sotto un centinaio di persone. La città sta diventando invivibile. Il sindaco Shila Dikshit, che mi sembra una persona sensata e che è da oltre dieci anni al potere, ha suggerito di bloccare l’accesso ai veicoli a diesel che sono circa il 20% del traffico totale. E’ chiaro che non potrà farlo. Tra di loro ci sono i furgoncini che garantiscono l’approvvigionamento alimentare della capitale. Fermarli alle porte di New Delhi scatenerebbe una corsa al rialzo dei prezzi che sono già alle stelle (l’inflazione è al 6%).
Capisco il diritto dei Paesi emergenti ad avere uno sviluppo industriale ed un innalzamento della qualità della vita. Ma è proprio questo che non può avvenire. Mi dispiace e mi sento in colpa perché appartengo a una categoria di persone che in Occidente ha inquinato per decenni. La coperta purtroppo non si può allargare. Il pianeta è solo questo qui e non ce la fa per tutti. Inutile recriminare sulle colpe passate come è avvenuto alla conferenza di Bali. Siamo tutti nella merda, anche gli indiani con i loro sogni di motorizzazione. Per favore cercate di capirlo e non trasformate le città in gironi infernali.

Sonia Gandhi mangia la polenta con formaggio Asiago


In queste settimane New Delhi è avvolta da una cappa di smog e foschia che rende l’aria irrespirabile e trasforma il sole ad un pallido lumicino visibile solo due o tre ore al giorno. Pochi sanno che quando comincia a nevicare sulle pendici dell’Himalaya, l’aria della capitale si fa tagliente e per molti senzatetto purtroppo anche letale. La mancanza di luce e il freddo fanno precipitare il mio morale sotto i tacchi. Lunedì sera mi trovavo a un ricevimento in occasione del concerto tenuto dall’orchestra Teatro Regio di Parma, definita dai giornali indiani “una delle migliori orchestre al mondo”. Che sarà sicuramente vero. Come italiana sono anche orgogliosa di tanta ammirazione.
Ad un certo punto mi sono avvicinata a Paola Maino, una simpatica nonnina veneta che per caso è anche la mamma di Sonia Gandhi e che usa “svernare” a Delhi a casa della figlia. Della vita privata della presidente del Congresso, considerata tra le dieci donne più potenti al mondo, non si sa praticamente nulla. Pochissimi e fortunatissimi giornalisti sono riusciti a intervistarla. Di lei esiste solo una biografia, non autorizzata, che in realtà è basata su un suo libro di memorie dedicato al marito Rajiv e su qualche aneddoto curioso che negli anni è riuscito a superare la spessa cortina di riserbo in cui si è avvolta da quando è scesa in campo per salvare lo storico partito di Nehru e di sua suocera Indira Gandhi. C’è gente che sarebbe pronta a fare carte false per avere qualche pettegolezzo su Sonia.
Non riesco neppure ad immaginare le sue serate in compagnia dell’anziana madre, dei figli e dei nipoti. Di che cosa parleranno? Delle elezioni in Gujarat oppure dell’accordo tra Usa e India sul nucleare pacifico? Domenica Sonia ha festeggiato 62 anni e di sicuro avranno celebrato in famiglia, mentre fuori la residenza ufficiale al numero 10 di Janpat c’era un’intera nazione ad osannarla.
Dopo i soliti convenevoli sulla cena e sui cambi di stagione che affliggono gola e bronchi, un’amica della First Mother si rivolge a me con un tono declamatorio: “vede signora Paola, questa che vede qui è una giornalista, ma in tutti questi anni non mi ha mai chiesto nulla di lei o di sua figlia. Mai una domanda o una curiosità su di voi. Quindi si deve fidare di lei, non è come gli altri giornalisti”. E’ vero. Nonostante la curiosità che mi rode lo stomaco sono sempre stata corretta e non ho mai cercato di carpire da nonna Paola qualcosa sulla sua illustre figlia. Se non delle bazzecole. Per esempio che ogni tanto mangiano la polenta con il formaggio Asiago portato ovviamente dall'Italia. Sono veneti, che male c’è? L’episodio però mi ha lasciato un velo di tristezza che, sommato agli effetti climatici deleteri, si è trasformata in depressione quando sono giunta nel freddo e buio del mio appartamento. Forse avrei dovuto scegliere un altro mestiere.

La febbre del sabato sera a New Delhi


In un Paese come l’India dove la metà della popolazione ha meno di 25 anni ci si chiede spesso come vivono i giovani, cosa pensano e dove vanno a divertirsi. Ogni tanto qualche settimanale cerca di fare un identikit della gioventù, ma di solito si limita ai ragazzi di Bangalore, la Sylicon valley indiana, che tutte le sere vanno in birreria o che fanno il filo alle ragazze in discoteca. Ci ha provato anche Bollywood ad inquadrare il fenomeno giovanile indiano con un film “Rang De Basanti” di un paio di anni fa sulla ribellione violenta di un gruppo di ragazzi di Delhi contro un ministro corrotto. Ma è pura fiction perché l’impegno sociale, anche in questo caso, è limitato a un’elite di giovani che di solito arrivano dalle migliori università straniere. Nessuno, che mi risulti, ha mai cercato di fotografare le preferenze elettorali dei teenagers pur essendo in futuro un serbatoio di voti immenso per partiti come il Congresso (che però si sta ringiovanendo con l’ingresso di Rahul Gandhi, primogenito di Sonia e quinto erede della dinastia iniziata da Nehru). Mi era capitato un po’ di tempo fa di scrivere un’inchiesta sui giovani di New Delhi da pubblicare su un inserto de “La Stampa” che tra l’altro ha avuto vita brevissima. Devo dire che non è stato facile descrivere i ragazzi e le ragazze indiane che sono omogenei non solo per i tratti fisici, ma anche per i loro gusti e comportamenti. Innanzitutto i loro margini di libertà, oltre lo studio e il lavoro, sono ristrettissimi. La famiglia è determinante fin dai primi anni di scuola nell’orientare il figlio o la figlia verso una certa professione che nella maggior parte dei casi è quella paterna. Il matrimonio è combinato dai genitori in base allo status sociale della famiglia e al livello di stipendio. E’ la logica della casta anche se per noi non è poi così visibile. Non ci si spiegherebbe altrimenti perchè ci sono così tante coppie sposate di medici, professionisti, stilisti o architetti. Il che funziona benissimo perché oltre che a tramandare la tradizione della famiglia si sfruttano le sinergie professionali. L’amore viene dopo gli interessi e comunque è sempre un option di cui si può anche fare a meno. A guidare i giovani sono quindi i risultati scolastici, le pressioni della famiglia e la carriera. E il tempo libero? Come al solito è una prerogativa di quella percentuale esigua di popolazione concentrata il quel fazzoletto di New Delhi, nella parte sud, dove abitano anche gli stranieri.
Molto spesso mi chiedono dove vado a svagarmi in questa città che penso sia agli ultimi posti al mondo per il divertimento forse appena dopo Islamabad e Kabul. Le altre metropoli come Mumbai e Bangalore hanno la fama di essere più goderecce. Delhi è invece un’austera capitale dove i locali per ballare sono appena una manciata appena e la maggior parte sorgono negli hotel a cinque stelle.
Sabato sera, per esempio, ero nell’unica maxi discoteca, l’Elevate, che è pure fuori, a Noida, polo del terziario avanzato a una ventina di chilometri. Si trova in uno degli orribili parallelepipedi di vetro e cemento destinati a diventare centri commerciali di lusso, ma ora ridotti a scheletri di vetrine vuote e corridoi spogli. Le decine di “malls” in costruzione alla periferia di Noda e Gurgaon cambieranno le abitudini di milioni di persone. Trasformeranno New Delhi in una Bangkok. Per adesso però sono delle polverose cattedrali nel deserto circondate da strade da asfaltare e montagne di detriti.
L’Elevate, celebrato come uno dei migliori e più esclusivi “night-club” è una classica discoteca al massimo di decibel con una pista abbastanza spaziosa sormontata da un megaschermo e circondata da una sorta di balconata superiore che è il “prive”. C’è sicuramente l’impronta di un architetto occidentale che ha fatto una fusion tra arredi da palazzo del maharaja con poltrone e accessori “minimal”. Quindi si vede, per esempio, un prezioso divanetto di metallo argentato con braccioli a forma di elefante con dei pouff di pelle bianca che sembrano delle mezzalune o delle banane. Dopo la mezzanotte il locale si è riempito, anche se nulla al confronto con le nostre discoteche al sabato sera. A parte i turbanti colorati dei sikh, che facevano un po’ esotico, dominava l’ordinarietà. Fino al limite della noia. Le ragazze quasi tutte in jeans tre quarti, sandalo con tacco e top ma non troppo scollato. Nulla di sexy. Nonostante il kamasutra, le indiane non sono sexy, ma solo sensuali, quello sì. E se provano ad esserlo diventano improvvisamente volgari. Quindi prevale il modello acqua e sapone, capello liscio e gambe coperte, che è bello, ma omogeneo appunto. Per i ragazzi invece va forte il tipo balestrato, con i bicipiti e pettorali ben gonfi, ma sempre sotto la maglietta, mai le spalle scoperte. Visto che l’ingresso è supergiù sui 40 euro, una cifra iperbolica per un laureato che guadagna in media dai 200 ai 300 euro mensili, sono sicuramente “figli di papà”. La musica, anche quella, abbastanza ordinaria, un remix dei pezzi classici della disco dance, da Madonna a Jennifer Lopez, scelti da un compostissimo dee-jay. Con qualche inserto di Punjabi Rock e - incredibile – una versione disco del tormentone “Hare Krishna”. Mi sembrava quasi blasfemo usare una preghiera in discoteca. E' come sculettare sul ritmo di un Padre Nostro. Ma penso di essere stata l’unica a pensarlo.

Qualche banalità sul traffico a New Delhi


Quando sono incastrata in quell’ammasso mostruoso di lamiere, pneumatici e carne umana che dopo le sei del pomeriggio si coagula sull’asfalto delle tangenziali di Delhi, penso di avere la certezza dell’esistenza di dio. Perché solo un demonio, un anti Cristo, potrebbe causare una tale devastazione dell’habitat umano. Lamentarsi del traffico cittadino è banale a qualsiasi latitudine uno si trovi. Figuriamoci poi in un paese di un miliardo e oltre cento milioni di abitanti. Anche se per fortuna sono ancora pochi coloro che si muovono su quattroruote. Ma anche un’esigua minoranza di auto è sufficiente a mandare in tilt la circolazione già difficoltosa per la mancanza di segnaletica, per le voragini nella carreggiata e per la massa dei disperati a due, (tre) o quattro gambe.
D’altra parte in questi giorni a Delhi c’è una coincidenza di eventi da far tremare le vene anche alla più efficiente delle polizie municipali. L’altra sera si sono celebrati 20 mila matrimoni. Nel principale stadio della città si svolge uno degli interminabili tornei di cricket con il Pakistan. Al Pragati Maidan, il complesso fieristico di Delhi, è in corso una mostra nazionale sull’artigianato che è richiama fiumi di visitatori. Al quadro vanno aggiunte le delegazioni dall’estero e l’attività diplomatica consueta per una capitale. La prossima settimana per esempio si terrà il summit tra India e Unione Europea. In più era scattato anche l’allerta anti terrorismo dopo gli attentati in Uttar Pradesh.
Ad ogni stagione invernale, dopo le promozioni festive del Diwali, il parco auto cresce in quantità e qualità. Oggi, nei pressi del Lodhi Garden, ho visto due - ben due – Porsche Cayenne che sono sfrecciate davanti al mio scooter Hero Honda, tanto per dare un contentino pubblicitario anche al maggiore produttore di due ruote indiano. Un po’ di tempo fa ho visto un bolide della Ducati sempre nella stessa zona dove è concentrata la “high-class” delhita. Il prossimo anno la Tata inizierà a produrre la sua “mini car” che vorrebbe vendere a 100 mila rupie, meno di 2000 euro e che diventerà la Cinquecento degli indiani. Le vecchie e aristocratiche Ambassador, le “auto blu” dei funzionari statali indiani, andranno in soffitta o serviranno per portare a spasso turisti nostalgici dell’India-che-fu. Le nuove utilitarie intaseranno i mega caselli all’americana che sono in costruzione lungo le strade di accesso a Delhi. Sicuramente inquineranno un po’ - ma non tanto come le nostre vecchie Cinquecento perché vanno già a benzina verde - ma faranno la felicità di milioni di famiglie che non saranno più costrette ad ammassarsi in 4 o 5 su una moto con la testa del neonato che sporge paurosamente dalle braccia della madre.
E’ confortante sapere che cresce l’interesse dell’industria indiana per motori ad energia pulita anche grazie agli investimenti di stranieri che cercano di assicurarsi così i famigerati “carbon credit”. Un po’ di tempo fa ho conosciuto uno svizzero transitato da Delhi con la sua auto “solare”, una sorta di trabiccolo sportivo a tre ruote attaccato ad un carrello con pannelli solari (NELLA FOTO). Lui si chiama Louis Palmer e sta facendo il giro del mondo (http://www.solartaxi.com/). Sempre a Delhi un anno fa hanno iniziato a circolare in via sperimentale delle auto all’idrogeno e da alcuni mesi c’è una promozione battente di scooter elettrici costruiti con tecnologia europea. Proprio oggi ne ho visto uno al Pragati Maidan, realizzato da un gruppo tecnologico indiano che si chiama SAR e che sarà presto in vendita a 29 mila rupie (una rupia oggi è circa 58 euro). Certo il problema è l’autonomia, che è solo di 5 ore. Bisognerebbe creare una sorta di “distributori di corrente” in strada, ma temo che per caricare le batterie ci voglia molto più tempo che fare un pieno.

POST SCRIPTUM:
il giorno dopo aver scritto questo post ho letto che ogni giorno a Delhi ci sono 1000 nuove immatricolazioni di auto!

Cucinotta, tette in mostra contro la fame


La scorsa settimana Maria Grazia Cucinotta, nominata dal Pam, il Programma Alimentare Mondiale “ambasciatrice contro la fame nel mondo”, è arrivata in India per visitare alcuni distretti tribali del Madhya Pradesh dove l’agenzia assiste la popolazione. Benissimo che la fame in India, anche se non è così grave come nell’Africa subsahariana, salga alla ribalta della cronaca grazie all’attrice italiana che gli indiani conoscono soprattutto per la sua partecipazione nel film il Postino. Però si è dimenticata che l’India non è l’Italia, anche se i due Paesi iniziano con la “i”, e che qui non è necessario (non ancora) per le donne mettere in mostra tette e culi per passare sui giornali. Alla conferenza stampa tenuta a Delhi il 16 novembre, la Cucinotta indossava un elegante abito nero con una vistosa scollatura sul seno. Bello, se fosse stata alla Croisette. Invece era in un Paese di un miliardo e passa di persone, di cui un terzo vive con un dollaro il giorno e che con il costo degli orecchini che lei indossava potrebbe vivere un anno intero. Poteva anche andare bene se era ad una festa di Bollywood, tra le dive del cinema indiano che sono altrettanto sensuali. Ma il suo compito qui era di sollevare l’attenzione sulla “fame”. E’ evidente che i quotidiani indiani abbiano parlato molto più del suo sex appeal che della miseria del Madhya Pradesh. Come stupirsi? D’altronde gli uffici del Pam sono a Roma.

Delhi, metti una sera a Jorbagh


Gli italiani che vivono in pianta stabile a New Delhi sono circa 200 ed è quindi relativamente facile incontrarsi. Una delle occasioni più frequenti in cui si ritrova sono i ricevimenti, banchetti e feste comandate celebrate di solito nel bel prato circondato da bouganville davanti alla residenza in stile coloniale dell’ambasciatore italiano. E’ uno dei lati positivi della vita da espatriati in India. Le signore, con la pashmina ricamata di ordinanza, si scambiano le ultime dritte su dove trovare lo speck al miele o i prodotti per sgrassare i pavimenti. I rispettivi mariti discutono amabilmente con i calici in mano degli ultimi eventi politici nella madrepatria. Gli invitati indiani, con le signore in sontuosi sari, distribuiscono a piene mani biglietti da visita e raccontano i loro aneddoti di viaggio davanti alla Fontana di Trevi o sotto il Vesuvio. Il buffet è rigorosamente italiano con prelibatezze tipo mozzarella di bufala fresca o parmigiano reggiano.
Ieri sera mi trovavo in una di queste riunioni conviviali organizzate da una giovane diplomatica per inaugurare la sua nuova casa che si trova a Jorbagh, uno dei quartieri più aristocratici e anche più cari del Sud di Delhi. In passato era l’unico posto dove risiedevano gli stranieri, adesso è diventato un po’ decadente. La casa, molto accogliente, con un piccolo giardino davanti, è stata ristrutturata con parquet e serramenti moderni. Dopo una certa ora erano arrivati così tanti invitati che si faceva fatica a passare per andare a prendere il cibo cucinato sul momento nel retro dello stabile sotto un tendone bianco. Il “catering” arrivava da un noto ristorante di Delhi gestito da un’amabile signora, Ritu, che ha passato una decina di anni in Italia e che ora si è ricavata un lucroso business gastronomico con gli italiani. Ha perfino aperto un ristorante all’interno del centro culturale italiano. Gli invitati erano vari e così anche gli argomenti di discussione. Con un sacerdote polacco diplomatico della Santa Sede ho parlato di un viaggio in auto che ha fatto in comitiva da Kathmandu a Lhasa. A fianco un ex generale indiano in pensione, che aveva combattuto due guerre contro il Pakistan, stava scambiando opinioni su Musharraf con un diplomatico italiano a suo agio in un salwar kamize chiaro con gilè di khadi. Davanti al prosciutto cotto affumicato al miele ho invece parlato di medicina omeopatica con la moglie di un altro diplomatico che ora si trova a Roma, ma che è stato in India per tre anni. Un quarantenne impiegato dell’ambasciata mi ha poi raccontato della sua nuova vita di coppia con una modella africana conosciuta qui e sposata la primavera scorsa. Ho quindi concluso la serata gustando salsa calda di cioccolato sul gelato vaniglia e discettando di fotografia digitale con un amico sikh che insegna italiano e che occasionalmente lavora come interprete quando ci sono le delegazioni dall’Italia. Tornando a casa con lo scooter, rabbrividendo nella prima foschia invernale, ho imboccato l’Aurobindo Marg, deserta e costeggiata dai cantieri della nuova metropolitana. Ho cercato le sagome nere distese lungo il marciapiede davanti al mercato INA. Erano là come sempre.

Diwali in rosa shocking a Jaipur


Per la festa induista delle luci, il Diwali, sono stata a Jaipur, la "città rosa" alle porte del deserto del Rajasthan, una delle mete turistiche indiane più sfruttate per la sua vicinanza con New Delhi, "appena" sei ore di auto e per il suo nobile passato. Il Rajasthan è la terra dei Maharaja ed è la cartolina per eccellenza dell'India con tutti gli stereotipi a cui siamo abituati. Vacche sacre, elefanti, incantatori di serpenti e tessuti dai colori sgargianti. Tutto ancora autentico, per carità, sapori e odori compresi. Solo che ci si chiede come Jaipur e le altre città faranno a resistere al rapido avanzare del nuovo progresso indiano, ai mega centri commerciali, alle nuove arterie stradali e all'improvvisa ricchezza che ha fatto esplodere i consumi e le aspirazioni di una minoranza di fortunati.
Da una terrazza dei nuovi palazzi residenziali con ascensore e mega vasche da bagno angolari, ho ammirato lo skyline illuminato di Jaipur la sera dei Diwali quando migliaia di botti, mortaretti e fuochi di artificio illuminavano il cielo. Oltre alla torre del vecchio ristorante girevole, spiccavano i nuovi simboli di vetro cemento del boom indiano. L'India sta recuperando in fretta l'abissale divario esistente con i suoi vicini del Sud-est e con la Cina. Tra una decina di anni il volto di New Delhi e di Mumbai sarà irriconoscibile. "L'appuntamento con il destino" citato 60 anni fa da Jawaharlal Nehru nel suo discorso della mezzanotte davanti all'Assemblea Costituente è ormai sotto gli occhi di tutti. Anche della grande massa degli emarginati che dormono sui marciapiedi o mendicano davanti ai bus "deluxe" che scaricano le comitive di stranieri davanti al forte di Amber. Qualcosa sta cambiando anche per loro, certo più lentamente, ma la ruota sta "girando" anche per costoro.
Il celebre ed ultra publicizzato Palazzo dei Venti, il Maha Mahal, è stato ridipinto di fresco di un rosa shocking. Un po' troppo pacchiano si direbbe, tanto che sembra un fondale di cartapesta come quello che sormonta la strada di Tripolia Bazar sponsorizzato dai commercianti per la festa di Diwali. Sul marciapiede opposto, dove è obbligatorio spostarsi per scattare le foto, i negozianti parlano in perfetto italiano e sanno imitare ogni inflessione dialettale nostrana. Anni di esperienza e furbesca indole asiatica. "Non ti preoccupare, qualche giorno e diventerà rosa antico" rassicura uno di loro che mi ha venduto per 50 rupie una t-shirt con la scritta Rajasthan sotto una caravana di cammelli.

Diario indiano


Sono sei anni che respiro gli odori dell'India, per ricordare il famoso libro-diario di Pasolini. A parte la mia città natale, Chivasso, la città piemontese della Lancia, questa è la mia permanenza più lunga sullo stesso lembo di suolo di questo pianeta.
Con New Delhi condivido un rapporto di odio amore. Adoro il giallo dei suoi laburni nelle strade che fanno pendant con i manghi sulle bancarelle. Ma non sopporto più i continui black out, i commercianti disonesti che tentano di fregarti e gli enormi sputi di pan che ricoprono muri e marciapiedi.
L'India non mi è più tanto misteriosa, ma mi stupisce e mi incuriosisce ancora ogni giorno. E' un mosaico difficile da comprendere, ho collezionato tante tessere, ma non riesco ancora a mettere a fuoco l'immagine. Come il venditore di perline nella foto che ho scattato nel bazar di Chandi Chowk - quello che rimane del giardino creato dalla principessa moghul Jahanara - anch'io ogni giorno raccolgo in un sacco i frammenti di colore di questo Paese. Senza mai riempirlo. All'infinito.