DIARIO DALLE ANDAMANE/Tra le mangrovie verso Long Island


Long Island, 19 marzo    Sono arrivata a Long Island, l’isola piu’ a nord tra quelle aperte agli stranieri, dopo un viaggio di 12 ore, di cui meta’di attesa del traghetto. Probabilmente non ho calcolato bene le coincidenze. Spesso e’ anche difficile capire gli orari qui alle Andamane...ogni tanto penso che vivono in un altro tempo spazio temporale che non coincide con quello di chi arriva da fuori. Purtroppo poi non ci sono mappe dettagliate dei luoghi e ahime’ non funziona il GPS. Quindici si deve affidare solo alle informazioni della gente del posto che spesso non parla ne’ inglese e ne’ hindi.
   Sono partita da Diglipur alle 5 del mattino con una corriera diretta a Rangat, la seconda citta’ delle Andamane, divisa da Port Blair dalla riserva dei Jarawa. Da li’partono diversi traghetti, tra cui uno per la vicina Long Island, che tutti definiscono come la piu’ selvaggia tra le isole che si possono visitare.
   Andando come un razzo nella foschia del mattino (la foresta era avvolta dalla nebbia all’alba),il vecchio e malandato bus e’ arrivato puntuale alle 8 a Rangat. La stazione degli autobus e’ una cattedrale del deserto. Enorme, con piastrelle luccicanti, ordinata e pulita, con avvertimento di non sputare il pan e una televisione con schermo piatto davanti alla sala di aspetto.
 Una targa informava che era stata inaugurata nel 2007 alla presenza di autorita’ locali. Un ex dipendente originario del Punjab, che era una sorta di guardiano e fac totum, ha iniziato a elogiare la stazione come la “piu’ grande delle Andamane” e addirittura “una delle piu’ grandi in Asia”. Mi ha anche presentato a un gruppo di insegnanti, in sari rosa, che stavano andando a Long Island per una riunione.
    Il mio bus per il jetty Yeratta (dove si parte per Long Island) sarebbe partito alle 10 da un’ala della stazione dove c’era scritto appunto “yeratta”. Per due ore sono stata in attesa nella stazione dove non e’ arrivato ne’ partito nessun bus. Le insegnanti se n’erano andate perche’ avevano un altro appuntamento, il pensionato punjabi e’ scomparso. Poi aun certo punto, mentre io ero immersa nella lettura di una grammatica in hindi, un tizio si e’ avvicinato per chiedermi dove andavo. Ho scoperto da lui che il bus per il jetty era gia’ partito dal bazar....e che non ce ne sarebbero stati altri nel pomeriggio. Non ho mai capito se la stazione dei bus era una finta, o se c’era la solita mafietta dei riscio’ e taxi che sviavano i turisti dal prendere i trasporti pubblici.
    Fatto sta che mi sono ritrovata a camminare per circa sette km verso il jetty Yeratta dove mi avevano detto che c’era un traghetto alle 14, che poi era alle 16.30....A meta’ strada sono stata raccolta da un bus carico di reclute del corpo forestale che andava a visitare un centro di conservazione per le mangrovie.
    Arrivata a Yeratta, ho scoperto, incredula, che non c’era un porto sul mare, ma soltanto uno piccolo molo su una striscia di acqua tra una fitta foresta di mangrovie. E’ da qui dopo ore di attesa, stesa su un muretto di una sala di attesa, che e’ comparso un vecchissimo battello preceduto da una lugubre sirena. Le disavventure della giornata sono sparite per incanto. Mi attendeva un viaggio tra le backwater delle Andamane e per di piu’ al tramonto!
   Il tragitto verso Long Island e’ stato in effetti una delle esperienze piu’ gratificanti del mio viaggio alle Andamane. Il battello, che si e’ riempito di pendolari e di varie merci, ha percorso per un’oretta un canale interno, tra le rive coperte di mangrovie (e forse coccodrilli)per poi sbucare in mare tra una cornice di isole e isolotti.
    L’unica guesthouse e’ la Blue Planet e ci si arriva dopo una quindicina di minuti dal molo seguendo delle frecce blu. C’e’ anche un’altra sistemazione, ma e’ riservata a indiani, cosi’ mi e’ stato detto.   Come gia’ avevo notato altre volte, i gestori non sono molto accoglienti e molto avari di informazioni. Sara’ che forse, organizzano loro stessi escursioni, come e’ nel caso di Blue Planet, dove, ho scoperto, si fa anche sub. Questo poca socievolezza, purtroppo, contagia anche i turisti.
   La guest house e’ formata da una decina di ‘capanne a schiera’, su una palafitta, divise una dall’altra solo da una stuoia, un po’ rumorose, sembra strano che in un isola sperduta e semi disabitata, alla fine si sta tutti ammassati…ma l’unica soluzione era un’amaca in spiaggia, cosi’ mi hanno detto.
   A Long Island non ci sono veicoli e quindi è davvero un paradiso naturale. La spiaggia più bella è Lalajit. Bisogna chiedere un permesso, gratuito, presso il dipartimento forestale e poi prendere un sentiero contrassegnato con dei segni rossi. La camminata dura circa un’ora e mezzo, si va dall’altra parte dell’isola, attraversando una fittissima foresta. Se no, in alternativa, la si può raggiungere in barca dal porticciolo.
   Lo snorkelling a Lalajit è favoloso. La barriera corallina è molto profonda, un vero muro di coralli, pieno di pesci di tutti i tipi, un meroviglioso acquario che ho esplorato in apnea. Dopo diversi giorni di immersioni, sono abbastanza allenata e riesco a stare giù più a lungo. La mia attrezzatura da snorkelling, è ridicola….un paio di occhialini da piscina. Ma sono sufficienti, almeno per me, per immergermi e ammirare la vita là sotto…

DIARIO DALLE ANDAMANE/ Attenzione ai coccodrilli? ...come si fa?

Diglipur, 17 marzo 2015

   Qualcuno mi deve spiegare quanto sono seri gli avvertimenti sui coccodrilli che si trovano praticamente in ogni spiaggia e lungo ogni fiume. Che qui alle Andamane ci siano i coccodrilli e’ fuori discussione, tanto piu’ che da alcuni anni sono protetti, come lo sono le mangrovie, che sono le loro habitat naturale. 
Alcuni cartelli avvertono “beware” or "danger", altri vietano il bagno e lo snorkelling. Mentre altri ancora si “limitano” a informare “che sono stati avvistati coccodrilli”.

In un caso, vicino a Wandoor, popolare spiaggia nei pressi di Port Blair, c’era anche la data dell’ultimo avvistamento, circa un mese fa.
Ovviamente, quando entri in spiaggia e leggi i cartelli, non sei proprio a tuo agio, diciamo... Soprattutto come spesso mi e’ capitato non c’e’ anima viva.  Durante la bassa mareea, ogni roccia scuro o tronco squamoso evoca coccodrilli in agguato. Su una guida ho letto che i coccodrilli non si trovano al largo, e questo e’ un sollievo per me che sono una nuotatrice. Ma prima di raggiungere il “largo” ci sono centinaia di metri di fondale basso o terreno paludoso con mangrovie.
   Quanto e’ reale il rischio che sbuchi un coccodrillo? Ho guardato le statistiche per avere una risposta.  Piu’ o meno avviene un ‘incidente’ all’anno, ma non e’ precisato che significa “incidente”. Nel 2010 una turista americana e’ stata sbranata mentre faceva snorkelling con il compagno ad Havelok, tra Elephant Beach e la famosa Radha Nagar beach. Mi hanno detto che il rettile e’ poi stato portato a Port Blair e che e’ stato messo “sotto osservazione”. Non e’ dato sapere se e’ stato riportato poi nel suo posto di origine.

   Nella spiaggia di Chiriya Tapu, sulla punta di Port Blair, c’e’ un tratto di mare protetto da una rete dove e’ possibile praticare “safe swimming”. Ho nuotato fuori, ma abbastanza vicino alla rete e sempre guardandomi intorno con un po’ di apprensione. Il bello e’ che mi vengono in mente le scene dello Squalo e altri film simili, ma non riesco assolutamente a visualizzare un attacco di un coccodrillo, anche perche’ non mi sembrano cosi’ veloci.

   Insomma, se ne vedo uno, cosa che non e’ facile visto che si mimetizzano perfettamente, riesco a scappare? O magari c’e’ qualcosa da fare per farlo fuggire? Esistono gli incantatori di coccodrilli?  E perche’ non danno delle istruzioni, oltre che limitarsi ad avvertire? Questi sono i pensieri che accompagnano le mie giornate alle Andamane...

DIARIO DALLE ANDAMANE/ In bus attraverso la foresta degli indigenI Jarawa



Diglipur (North Andaman), 17 marzo 2015
   Sono partita alle 4 di mattina da Port Blair con un bus privato diretta a Diglipur, l'ultimo centro urbano a nord dell’arcipelago oltre che terza citta’ piu’ grande dell’arcipelago. Per arrivarci si percorre un pezzo della ATR, la Andaman Trunk Road, ovvero l’arteria principale che va da Port Blair a Diglipur per 325 km, chiamata la ‘famigerata strada’ perche’ attraversa il territorio della rara tribu’ dei Jarawa. 
Questi indigeni, che sono i piu’ vicini a Port Blair tra le tante comunità tribali andamanesi, sono stati in passato vittime del cosiddetto ‘safari umano’. Ovvero di turisti che con le jeep andavano a fotografarli come animali allo zoo. In particolare, aveva creato un grosso scandalo un video di una guida turistica o un tassista, mi sembra, che faceva ballare una donna indigena di ballare in cambio di soldi davanti a una comitiva di turisti. 
   All’ingresso della riserva c’e’ in effetti un cartello che vieta qualsiasi "contatto" con i Jarawa in quanto tribu’ protetta. L’accesso e’ limitato a bus e veicoli turistici, che devono viaggiare però in convoglio, scortati dalla polizia per tutto il tratto di strada che attraversa la foresta dei Jarawa. Ogni veicolo deve essere registrato e cosi’ anche gli stranieri. Ogni giorno ci sono quattro partenze dei convogli, il primo alle sei e l’ultimo alle 14.30. Al di fuori di questi orari, in teoria, non passa nessuno.
Dopo gli scandali, sembra che le autorita’ delle Andamane siano molto attenti a far rispettare le regole. Ovviamente, con la complicita’ dei tassisti, secondo me e’ possibile incontrare un Jarawa. Dei giornalisti francesi lo hanno fatto l'anno scorso, ma sono finiti nei guai.
Dal finestrino del mio autobus ho sbirciato per tutto il tragitto se per caso spuntava fuori un indigeno dal fitto della jungla... Veramente mi sono sentita come quando si e’ nelle riserve delle tigri e si cerca di avvistare un felino. Oppure quando in Cisgiordania salivo su un bus dei coloni ebrei, scortato dalla polizia, che attraversava i territori palestinesi.
Mentre aspettavano la partenza del convoglio, un indiano, di quelli della middle class (che si possono permettere le vacanze alle Andamane, abbastanza costose rispetto alle altre mete), mi ha spiegato che ci voleva la sicurezza perche’ i “jarawa tirano le frecce”.
Mi sono accorta quanta ignoranza c’e’ tra gli indiani sulle popolazioni tribali. Non mi stupisco quindi che li trattano come animali allo zoo. D’altronde anche gli inglesi, quando sono venuti qui per primi, facevano lo stesso, se non peggio, perche’ li hanno cacciati via per costruire la colonia penale, le loro ville e uffici a Port Blair e dintorni.

DIARIO DALLE ANDAMANE/Ross Island, la 'Guantanamo degli inglesi'


Ross Island, 16 marzo 2015
   Davanti a Port Blair c’e’ un’isoletta chiamata Ross Island (da un certo Daniel Ross che l’ha catalogata per conto della Compagnia orientale delle Indie ) che ha un incredibile e triste passato. Nel 1858, dopo la rivolta degli indiani, i britannici la trasformarono in una terribile colonia penale, una sorta di Guantanamo Bay, dove inviare coloro che si ribellavano all’impero, ancora prima di costruire la famigerata ‘cellular jail’ a Port Blair. In realta’ era questo posto che conosciuto come Kalapani o ‘acqua nera’, probabilmente per l’associazione con la dea Kali, della distruzione, mentre altri dicono che è per via delle acque che in certi fondali sembrano nere.
   Dal 1860, dopo che i prigionieri la disboscarono, divenne un centro amministrativo e una una sorta di club superlusso per i funzionari e soldati britannici inviati in questo remoto angolo dei vasti possedimenti coloniali britannici. Vi risiedeva infatti il governatore in un villone in stile vittoriano circondato dal circolo sottufficiali, da un club con piscina, una grande chiesa anglicana una panetteria, una stamperia, un impianto per trattare l’acqua potabile e altre amenita’ per intrattenere le ‘memsahib’. Gli edifici erano ornati con materiali importati, come vetri italiani, e arredati con preziosi oggetti. Ci sono delle foto dell’epoca che lo testimoniano, e purtroppo anche immagini dei poveri prigionieri che hanno disboscato la foresta e costruito gli edifici.

DIARIO DALLE ANDAMANE/ Il sole e le maree scandiscono i ritmi delle giornate


Neil Island, 13 marzo 2015
I ritmi delle giornate alle Andamane sono dettati principalmente dal sole e dalle maree. Siccome il fuso orario e’ lo stesso di quello del subcontinente indiano, il tramonto e’ verso le 5 e mezza. Alle sei comincia ad imbrunire e alle sette e’ buio pesto. Nelle piccole isole, come Neil, alle nove e’ notte fonda. L’unico posto con un po’ di movimento rimane il bazar, ma dopo un po’ diventa deserto.
    Di conseguenza, ci si sveglia all’alba, dopo esattamente 12 ore. Alle 6 e 30 aprono i ristoranti, l’ufficio per prenotare i traghetti e anche molte escursioni turistiche. Alle otto, si e’ gia’ in spiaggia, e il sole sembra quello delle due.
   Per chi non e’ mattiniero, all’inizio fa un po’ fatica, ma e’ come il jet lag, dopo un po’ diventa normale.
    L’andamento delle maree, invece, determina la vita e il movimento sulle spiagge. Sono molto forti per via del basso fondale. Se si vuole fare snorkelling o nuotare, in questi giorni bisogna aspettare fino alle 11 perche’ prima e’ impossibile attraversare la barriera corallina per raggiungere il mare aperto. Dopo le 12  l’acqua sale velocemente e in certi casi invade tutta la spiaggia (e anche le borse che avete lasciato). La marea inizia a scendere dopo un paio di ore. Anche qui bisogna fare attenzione, perche’ se uno e’ al largo a nuotare, poi non ha piu’ acqua per tornare e deve strisciare su mezzo metro d’acqua sui coralli, come mi e’ capitato. Per chi ha le pinne, poi, c’e’ anche il rischio di danneggiare i coralli.
Alcuni posti, come il Natural Bridge, sono accessibili solo con la bassa marea (oppure nuotando, ovviamente). Questo movimento cambia continuamente l’aspetto delle spiagge, oltre che la complessa vita marina di pesci, crostacei e anfibi.

DIARIO DALLE ANDAMANE/ Alla scoperta di Neil Island


Neil Island, 12 marzo 2015
Dopo una pigra mattinata sulla spiaggia 'numero 5' di Havelok, dove ci sono tutti i resort e le scuole di sub, mi sono spostata nella vicina Neil Island, a circa un’ora di traghetto. Sulla mappa c’e’ scritto Neill, con la doppia elle, ma sulla segnaletica qui compare come Neil. Molto probabilmente era il nome di qualche ufficiale britannico, come quel Blair che nel 1777 scelse le Andamane meridionali per costruirci una colonia penale e da li' nacque Port Blair.
   L’isola e’ piccolina, da una parte all’altra saranno 8 km piu’ o meno, non ci sono scuole di sub ed e’ decisamente meno costosa. Sono al ‘resort’ Kalapani, che ha solo piccole capanne in bambu', sulla spiaggia 'numero tre'.  Il nome e’ un po’ sinistro, vuol dire in Hindi ‘Aqua nera’, ed e’ come i deportati chiamavano la famigerata prigione delle Andamane.
E’ curioso che le spiagge e anche i villaggi siano chiamati con un semplice numero. Probabilmente, quando New Delhi ha assegnato le terre ai coloni, ha semplicemente numerato i nuovi insediamenti destinati ai nuovi arrivati. Anche qui a Neil sono tutti bengalesi, ma di seconda generazione, tanto che si definiscono 'andamanesi'.
L’isola sembra completamente autonoma. Ha una centrale elettrica (ogni tanto pero’ manca la corrente), le scuole, una enorme caserma dei vigili del fuoco, secondo me un po’ sproporzionata rispetto alla grande e il commissariato della polizia. C’e’ un mercato che e’ il punto di riferimento dove si vende frutta verdura. Davanti c’e’ un pollivendolo, che e’ quello che mi ha affittato la bici, diverse trattorie, degli spacci alimentari e un negozio di elettrodomestici. Arriva anche il giornale, un foglio di quattro pagine, “The Daily Telegram” che si vanta di essere “the largest circulating daily of A&N Islands” e che e’ sfacciatamente filo governativo.

DIARIO DALLE ANDAMANE/ Snorkelling a Elephant Beach, ho visto Nemo!

Elephant Beach (Havelok), 11 marzo 2015 
    Elephant Beach e’ una delle attrazioni di Havelok, ma per fortuna e’ poco battuta perche’ non ci arriva con la strada ma con una facile camminata di circa mezzora. Il sentiero e’ indicato, si trova circa due chilometri dalla spiaggia di Radha Nagar.
    Si attraversa una foresta densissima, con enormi fusti, alcuni sono segnalati, e una foltissima vegetazione. Di nuovo mi ha ricordato la giungla thailandese. La gente del posto mi ha detto che ci sono anche degli elefanti al lavoro con la legna. Io ne ho visto uno (con le zanne), ma soltanto nella spiaggia di Radha Nagar e ne’ lui, ne’ il suo padrone erano molto interessati a farsi fotografare. 
   Il problema e’ che quando si arriva a Elephant Beach con l’alta marea, bisogna attraversare un fangoso acquitrino. La spiaggia, o quello che rimane, e’ piena di tronchi sradicati per lo tsumani. Evidentemente questo e’il lato dove e’ stato piu’ violento. E’ un po’ lugubre, ma a pochi metri dalla riva si trova una fantastica, davvero fantastica, barriera corallina, per fortuna ristabilita dopo dieci anni dal disastro. Dicono che sia il piu bel posto per lo snorkelling di Havelok e lo e’!!! Ho passato un’oretta in questo acquario. Ho visto anche il famoso “Nemo” (pesce pappagallo mi sembra) che dal riparo del suo anemone faceva lo spavaldo avanzando verso di me....proprio come nel film. 
   Purtroppo poi mi sono pero’ molto arrabbiata quando ho sorpreso due sub che stavano cercando qualcosa sotto le rocce con una fiocina. Ho avvertito una barca che staziona permanentemente li’ e che offre delle passeggiate sul fondale (‘sea walk’), con una maschera da palombaro in un’area ristretta, a chi non sa nuotare. 
   Ma mi sono accorta che i due sub appartenevano alla stessa barca! Purtroppo appoggiandosi con le pinne avevano anche danneggiato la barriera. 
   Come se non bastasse, sempre a Elephant (dove arrivano le escursioni in barca) affittano anche le moto d’acqua, i famigerati jet-sky, e con questi fanno dei giri sopra la preziosa barriera corallina!     Decisamente Havelok non fa per me.

DIARIO DALLE ANDAMANE - Havelok, tra sub e Suv


Havelok, 10 Marzo 2015
   Tra le nove isole delle Andamane aperte al turismo straniero, Havelok e’ la piu’ famosa e – ahime’ – anche quella piu’ affollata soprattutto perche’ qui ci sono le scuole di sub. Purtroppo si sta sviluppando in fretta e penso davvero che tra un po’ di anni faccia la fine del nord di Goa.
 Le guesthouse, quelle indicate sulla mia vecchia Lonely Planet, si sono trasformate in ‘resort’ con cottage in muratura, vetri oscurati e aria condizionati. Quelli ancora sopravvissuti invece sono diventate le abitazioni stagionali del personale dei resort, tipo insegnanti di sub, yoga, massaggiatori, ecc.
    Quando sono sbarcata, dopo circa tre ore di traghetto da Port Blair, c’erano circa 400 turisti. All’arrivo a ogni isola, gli stranieri devono mostrare il permesso di 30 giorni (rinnovabile di 15 giorni, ma solo se si mostra un biglietto di ritorno in continente) e sono registrati. Lo stesso permesso e’ necessario per alloggiare. Quindi in ogni momento, la polizia ha il controllo dei turisti. Penso sia a causa della presenza delle rare tribu’ indigene che sono “protette” come Tigri del Bengala, e anche per le installazioni militari (che pero’ sono nelle Nicobare, quindi off limits).

DIARIO DALLE ANDAMANE/Port Blair, un'India in miniatura, compreso traffico e fogne


Port Blair, 9 marzo 2015
   Incredibile come anche qui in mezzo all’oceano, a oltre mille chilometri, abbiano riprodotto una tipica citta’ indiana con il traffico assordante, clacson, lavori in corso mai finite, fogne puzzolenti che costeggianti la strada, baracche dove si beve il te’ o acqua di cocco.
Insomma le Andamane sono India, niente paura, anche se somigliano come natura piu’ alla Thailandia.   
   Port Blair e’ una miscela di etnie, razze e religioni, con una prevalenza forse di bengalesi. Una India in miniatura, con tutti i pregi e difetti. Forse un po’ piu’ rude. D’altronde i coloni indiani inviati qui decenni fa non hanno avuto vita facile.
    Da pochi anni poi le Andamane sono entrate nel circuito turistico e probabilmente gli isolani hanno cominciato ad annusare facili guadagni. La tendenza e’ di fatti di spremere il turista senza pero’ offrire dei servizi decenti e soprattutto proporzionati al prezzo.
    Quindi Port Blair, con i suoi mezzo milioni di abitanti, rimane un punto di transito in attesa di salire su un traghetto per Havelok o qualche altra isola.  Onestamente , anche io, che pensavo di fermarmi un paio di giorni, me ne sono andata dopo 24 ore. Non e’ un posto molto accogliente almeno per chi è appena arrivato.

La prigione di Port Blair

    Ho visitato la famigerata prigione degli inglesi, una sorta di gulag in mezzo all’oceano o una Guantanamo ante litteram, ora trasformata in un museo dedicato alla lotta per l’Indipendenza. Qui infatti sono stati internati e morti per le torture molti ‘dissidenti’ indiani. E’ una storia che non si conosce. Perche’ quando pensiamo al movimento di liberazione indiano pensiamo soprattutto al Mahatma.
    Il carcere, costruito tra il 1896 e i 1905, ha un’architettura speciale, e’ a raggiera, dal centro partivano sette ali per un totale di 698 celle. In questo modo nessun carcerato vedeva gli altri e dal centro i secondini potevano facilmente controllare tutti i corridoi. Sono rimaste in piedi tre ali che sono aperte ai visitatori.
C’e’ anche il braccio della morte e l’area delle impiccagioni. E’ una casupola con tre forche e tre botole. Mi chiedo se ancora oggi nelle prigioni indiane si usa lo stesso sistema di impiccagione.
Nei cortili sono state allestite delle mostre con le foto degli intellettuali indiani incarcerati qui e la storia del carcere da quando e’ stato costruito a quando e’ stato trasformato in un museo. Sono anche esposti alcuni strumenti di tortura.
Anche se ora e’ un museo, e ci sono perfino coppiette che usano le celle per appartarsi, nell’aria e’ rimasta la sofferenza. Ho pensato al dolore di migliaia di esseri umani rinchiusi qui per anni, in terribili condizioni, costretti ai lavori forzati per disboscare la foresta e costruire nuovi ali della prigione. Ho rabbrividito e sono uscita con uno strano senso di colpa in quanto proveniente dalla vecchia Europa. Come quando penso all’Inquisizione a Goa. Nessuno ha mai chiesto scusa.

Non-solo-stupri, 8 marzo con la comandante Anuradha Jha

Port Blair, 8 marzo 2015

    Mentre l’attenzione mondiale e’ concentrata sull’India degli stupri, voglio dedicare questo giorno a Anuradha Jha, giovane comandante donna che lavora ora per la Shipping Corporation on India. E’ una delle uniche due comandanti di navi civili indiane. Ha viaggiato a bordo di navi cargo per tutto il mondo a capo di ciurme di marinai, spesso per mesi.
   L’ho incontrata sulla plancia di comando della motonave Nicobar, che mi ha portato alle Andamane e che ha ha 75 uomini a bordo e una donna (l’infermiera). Le ho chiesto che vuol dire per lei dare ordini ai marinai uomini. “Non ho mai avuto problemi – mi ha detto – anzi sono fieri di avere una comandante donna!”.
   Ecco, il mio buon 8 Marzo all’India.

DIARIO DALLE ANDAMANE/ Avvistata la terra! Squillano i telefonini

A bordo della Nicobar, 7 marzo 2015
Ieri verso le 17 abbiamo avvistato terra. Una lunga striscia nera all’orizzonte. Sono le colline delle Nord Andamane. Leggo che l’arcipelago fa parte di una catena montagnosa che inizia dalla Birmania e prosegue fino a Sumatra e all’Indonesia.
Mi chiedo veramente che hanno a che fare queste isole con l’India. Ne discuto con un andamano, il cui bisnonno era emigrato la’ dall’Himachal Pradesh, che mi spiega che sono gli inglesi che hanno iniziato a usarle come colonia penale.
    L’avvistamento della terraferma crea uno stato di eccitazione generale. La tensione dei giorni precedenti si scioglie. Il Lido Bar, luogo di bivacco coperto di bicchierini vuoi di chai, e’ deserto. Sono tutti a prua, tanto che a un certo punto, interviene uno dello staff a sgomberare la folla. Anche quelli che non mi avevano rivolto la parola, mi sorridono e mi fanno vedere la terra all’orizzonte. Siamo tutti con i telefonini in mano in attesa del segnale, che arriva un’ora dopo.
    Lo sbarco pero’ non e’ pero’ stato possibile ieri sera, perche’ dopo una certa ora il porto e’ chiuso e non ci sono i rimorchiatori. Quindi la nave sosta al largo e poi oggi all’alba e’ andata in porto. Siamo sbarcati verso le sette. Io sono stata scortata fuori dal funzionario dell’Imigration che ha preso il passaporto (che avevo consegnato) e mi ha portato in un ufficio dove ha messo un timbro e mi ha dato un permesso di 30 giorni.
   Ieri sera ho festeggiato l’arrivo alla “Cabin Cove”, il ristorante del quinto pontile, dove servono uova al curry, riso e budino di riso. Piatto unico per 90 rupie. Mi hanno chiesto suggerimenti, dico che dovrebbero aumentare la scelta, visto che sono il ristorante riservato alle cabine superdelux. Ovviamente non rivelo che sto nella stiva al primo pontile tra i famigerati 'bunk passengers'.
   Prima di andare a dormire, ho fatto ancora un giro per sgranchirmi le gambe, la striscia d’argento della luna piena si era spostata a prua. Si vedevano delle luci a terra, forse un faro. Si sentivano le suonerie dei telefonini. Il gruppo Mustafa’ con la sua scia di gelsomino, era scomparso...di sicuro avranno avuto un canotto gonfiabile nei loro scatoloni...

DIARIO DALLE ANDAMANE/ Happy Holi in mezzo all'oceano

A bordo della Nicobar, 6 marzo 2015
Sono l’unica straniera sulla nave e devo dire che sono tutti molto rispettosi. Ovviamente mi fanno le solite domande che all’inizio, quando sono arrivata in India, mi infastidivano, ora ci sono rassegnata. Da dove vieni, quanti anni hai (a questa non rispondo quasi mai), dove e’ tuo marito, hai figli e poi che lavoro fai , quanto guadagni, quando paghi di affitto...
   I piu’ curiosi sono quelli delle ‘cabine’, ovviamente, perche’ sanno l’inglese e poi perche’mi vedono sempre seduta a scrivere sul ponte delle scialuppe oppure al ‘’lido bar”. Quando dico che sto sootto nel “bunk” mi guardano un po’ sorpresi. Chissa’ se uno dei miei compagni di cuccetta sale ai piani alti, che succede. Lo cacciano? Penso al Titanic e rido.
    E’ stata gia’ un'avventura salire su questa nave. I collegamenti per le Andamane sono assicurati dalla Shipping Corporation of India con partenze da Calcutta, Vizag (Visakhapatnam) e Chennai. E’ un carrozzone statale e lo si vede da come e’complicato anche soltanto avere informazioni su quando partono le navi. Se ho ben capito a gennaio c’era una partenza una volta alla settimana da Chennai. Ma poi entrambe le due navi che facevano servizio “si sono rotte” e sono in cantiere. “Forse” c’era una partenza il 6, se no il 9 marzo. Ci voleva poi un permesso della polizia per gli stranieri per entrare in porto.
    Da Vizag, invece, in Andhra Pradesh, la nave parte una volta mese e caso volle che era il 4 marzo. Quindi la sera del 2 mi sono precipitata alla stazione di Chennai e ho preso il primo treno per il nord. E’ arrivato all’una a Vizag, seconda citta’ dell’Andhra Pradesh di cui si parla solo quando arrrivano i cicloni dalla Baia del Bengala. Mi sono precipitata in porto, (dove li avevano gia’ avvertiti da Chennai) a comprare il biglietto (2280 rupie per la classe piu’ economica che e’ il bunk, mentre per gli isolani e’ solo 800). Mi ci e’ voluto anche il timbro dell’immigration perche’ usciamo dalle acque territoriali indiane. E quindi eccomi qui tra la Baia del Bengale e il Mar delle Andamane. In mezzo a niente, perche’ su questa rotta non c’e’ traffico commerciale.
     “Se qualcosa succede – mi ha detto la comandante, evidentemente preoccupata visto che e’ il suo primo viaggio con dei passeggeri – qui non arrivano nemmeno gli elicotteri”.  Il che rende ancora piu’ affascinante il viaggio, 800 disperati, da tribali andamanesi a un pensionato che ha vissuto a Chicago e che ora se la spassa con il gruppo di “morning walkers”, in viaggio per tre giorni in mezzo all’oceano su una carretta dei mari. Con luna piena....oggi e’ infatti Holi e mi diverte pensare alle battaglie di colori che stanno avvenendo sulla terraferma....

DIARIO DALLE ANDAMANE/ Acqua razionata e 'bunk passengers'

 A bordo della Nicobar, 5 marzo 2015

Alle tre del pomeriggio ho controllato il GPS, eravamo piu’ o meno a meta’ del tragitto. 128 gradi Sud Est, velocita’ 12 nodi. Ho cominciato a immaginare di essere in barca a vela.
Per i tre giorni della traversata mi sono portata una borsa con biscotti, panini dolci, due samosa e della gelatina di mango.
    All’inizio bevevo l’acqua da dei rubinetti dove c’era scritto “drinkable water”. Poi da quando la comandante mi ha spiegato che l’acqua viene caricata a terra (io pensavo ci fosse un dissalatore!), che non c’e’ nessuna certezza che sia potabile era tutta in un un’unica cisterna, ho iniziato a comprare le bottiglie, anche se a malincuore, perche’ non mi va di consumare plastica. L’acqua e’ razionata ed e’ quindi disponibile solo in certi orari della giornata che sono affissi allo sportello delle ‘informazioni’. L’ho scoperto soltanto ieri sera quando prima di andare a dormire volevo fare una doccia.
Stranamente non c’era nessuno nei bagni, mi sono spogliata, ho tirato fuori dal beauty case tutti l’occorrente, e poi ho aperto il rubinetto...e niente... Mi sono poi lavata i denti nei lavandini della “drinkable water” dove alcuni si erano appena sciacquati i piedi.
     Le condizioni dei bagni della categoria ‘bunk’ meritano un capitolo a parte, perche’ se no, non si capisce perche’ la Lonely Planet definisce “infamous” questa nave. Non eravamo ancora partiti che i lavandini erano pieni di vomito. Il buco delle latrine era coperto da una grata (forse per impedire di buttare degli oggetti che costruissero le tubature). Quindi anche con diverse scariche di sciacquone gli escrementi non scendevano. Negli infissi della porte e nelle tubature erano infilati assorbenti sporchi, ma in file ordinate, con una certa razionalita’geometrica, quasi un'opera d'arte. I lavandini non hanno tubo di scarico, quindi l’acqua ti scorre sui piedi e dopo un po’ l’intero bagno e’ allagato. I bambini ci sguazzano e ci fanno la pipi’.
    Di fronte a questo spettacolo, la mia filosofia “di viaggiare con la gente normale” ha vacillato e – lo ammetto - ho ceduto. Sono salita di due piani e, facendo finta di nulla, mi sono intrufolata nel bagno riservato alle cabine di seconda classe. Che sono piu’ o meno sono la stessa cosa, ma senza allagamento. Ho deciso che d'ora in avanti userò i cessi e le docce della seconda classe anche se c'è sono vietati alla mia 'categoria' sfruttando i miei privilegi di donna dalla pelle bianca e straniera. 
     La cuccetta, invece, tutto sommato non e’ cosi’ male , a parte uno scarafaggio che ha fatto capolini stamattina da una fessura del tetto. Sono in una cuccetta superiore, e dopo aver legato dello spago agli estremi del letto, ci ho messo uno scialle a mo’ di tenda. Intorno a me ci sono solamente dei giovani indiani, probabilmente andamanesi, che non sanno una parola di inglese. Mi guardano incuriositi, ma per ora non mi hanno mai importunata. Dopo le nove di sera,sono tutti a nanna, ma alle cinque comincia un baccano infernale . I gargarismi degli indiani al mattino sono uno dei grandi misteri di questi Paese. Non ho mai capito cosa gli indiani devono vomitare appena svegli emettendo dei suoni che ti fanno pensare a una gravissima intossicazione,oltre che ti fanno perdere l’appetito.

DIARIO DALLE ANDAMANE/ Partenza in nave, unica straniera tra 850 passeggeri


A bordo della Nicobar, 4 marzo 2015

La Lonely Planet la chiama la “infamous boat” per l’arcipelago delle Andamane. Solo quando ci sei sopra capisci perche’ . Sessanta ore per 1.250 chilometri tra Visakhapatnam e Port Blair.
Mi trovo sulla “Nicobar”, una motonave che ha 27 anni, e’ meta’ passeggeri e meta’ cargo. Ha sette ponti. Il primo, nella stiva, e’ dove sto io nelle cuccette (“bunk passengers”) , il settimo e’ quello del comandante, una giovane donna del Bihar, Anuradha Jha, una delle uniche due comandanti donne in India ed e’ al suo primo viaggio su una nave passeggeri (prima ha soltanto comandato cargo).
    Con me, unica straniera, viaggiano 850 passeggeri, suddivisi in “bunk passengers” (stanzoni di circa 60 cuccette), cabine seconda classe (sei cuccette), di prima classe (quattro) e le ‘superdelux’ (due letti, due oblo’, un salottino e bagno). La nave mi ricorda il Titanic, perche’ i pontili alti sono vietati alla plebaglia delle cuccette che disciplinatamente se ne sta nel loro posto. Ritira i pasti nella mensa del “bunk”a orari prestabiliti e prende aria su una verandina.
   Gli altri invece hanno a disposizione il “boat deck”, dove ci sono le scialuppe di salvataggio, un ristorante (con menu’ fisso) e il mitico “Lido Bar” al sesto piano, l’ultimo, dove c’e’ anche una piscina abbandonata e dei tavolini con sedie. Il “Lido bar’ serve caffe e te’ al mattino e dopo le quattro del pomeriggio.
    C’e’ musica ad alto volume e di solito si trovano giovani che stazionano pigramente su dei parapetti. A volte pero’ c’e’ il “gruppo Mustafa’”, come ho soprannominato un gruppo di una ventina di mussulmani sempre insieme con lo zuccotto bianco che sono sempre fuori giorno e notte, e che a orari fissi mangiano provviste che tengono in grossi scatoloni. La sera pregano rivolti verso la Mecca al Lido bar, durante il giorno stazionano a prua in cerchio leggendo il Corano. Quando passano lasciando una scia di profumo al gelsomino che si sparge per tutto il pontile e probabilmente anche in mare. Mi piace pensare alla nave che lascia dietro di se’ una scia profumata.