Basta con la Festa Nazionale a marzo


Ebbene sì, ho boicottato la Festa Nazionale della Repubblica Italiana che si teneva oggi 27 marzo nel giardino dell’ambasciata italiana di New Delhi. Non me ne abbia l’ambasciatore Armellini, che stimo molto, ma quest’anno ho deciso di dire basta. Dopo 5 anni ho marcato visita. Forse non si è neppure notato. Ho ricevuto una sola telefonata di un invitato che si chiedeva dove ero tra le 12.30 e le 14.30 quando si teneva il ricevimento. Dunque perché questo boicottaggio, tra l’altro condiviso anche da altri connazionali da me sobillati? Ecco: non mi va più di festeggiare a marzo l’anniversario della proclamazione della Repubblica avvenuta il 2 giugno del 1946. Mi sembra completamente fuori luogo e anche difficile da spiegare ai miei compatrioti che non sanno neppure della ricorrenza di giugno…. Avendo chiesto più volte il motivo dell’anticipo di ben tre mesi della Festa Nazionale – caso unico solo in India – ho ottenuto ogni volta una diversa risposta dal diplomatico di turno. La prima ragione è che il 2 giugno “fa troppo caldo”, il che è anche vero perché è il periodo più torrido dell’anno con punte di 45 gradi di giorno e poco meno di sera. Non si spiega però perché gli americani (4 luglio) e i francesi (14 luglio) festeggino le loro indipendenze in sintonia temporale con le rispettive madrepatrie. “Però loro organizzano il ricevimento al chiuso di un hotel e invece noi all’ambasciata abbiamo un bel giardino ed è un peccato non utilizzarlo” mi disse una volta un diplomatico. Ma neppure questo non mi convince. Altra spiegazione è che il 2 giugno “se ne sono andati tutti in Italia per le vacanze estive”. Anche in questo caso è solo parzialmente vero visto che le scuole, come quella francese, sono aperte fino al 15.
Il bello è che quest’anno, per la prima volta, non si è neppure rispettata la tradizione di anticipare al 15 marzo (chissà perché proprio il 15) come gli anni precedenti, almeno per quelli in cui sono qui io. E in più, altra clamorosa innovazione, per la prima volta il ricevimento si è tenuto durante l’ora di pranzo (e non a cena come era consuetudine). Problemi di budget della Farnesina? O forse per l’Italia ora è meglio tenere un profilo basso visto che siamo senza governo? Oppure il personale dell’ambasciata sta facendo le nottate per spedire le schede elettorali in tempo?

Dharamsala, i tibetani guerriglieri e i monaci con l'I-phone


Ogni volta che vado a Dharamsala c’è qualcosa che non mi convince. Questa ex guarnigione britannica e meta vacanziera alle pendici dell’Himalaya, è da ormai mezzo secolo la capitale amministrativa del Tibet dopo che l’India ha dato rifugio e assistenza al Dalai Lama fuggito nel 1959 alla repressione cinese a Lhasa. “Sua Santità” vive sul punto più alto della vallata, nella borgata di McLeoganj, dove sorge anche il tempio principale. Per tutti i tre giorni della mia permanenza, le strade del paese sono state percorse da mattina a sera da monaci e residenti che urlavano a squarciagola in hindi “Free Tibet”, “Viva il Dalai Lama”, “Abbasso Hu Jintao”. Tutti i negozianti e i ristoranti gestiti da tibetani erano chiusi. Sui muri e appesi ai balconi c’erano le immagini abbastanza raccapriccianti di corpi insanguinati traforati da proiettili. Le prove tangibili della repressione cinese. Mi sembrava la “Via Crucis dei tibetani”, visto che era anche il periodo pasquale.
Il Venerdì santo erano anche comparse le bandierine americane perché arrivava la speaker democratica Nancy Pelosi. Penso sia l’unico posto al mondo, al di fuori degli Stati Uniti, in cui qualcuno spontaneamente, senza doveri di protocollo diplomatico, abbia sventolato la bandiera a stelle e strisce. Si sa che gli americani, Hollywood e Richard Gere, sono tra i primi supporter della causa tibetana. La cosa insospettisce un po’. Però, d’altra parte, meno male che ci sono almeno loro. Sul “Times of India" di oggi un lettore, commentando un editoriale critico verso il Dalai Lama, scrive: “Il Mahatma Gandhi non è andato negli Stati Uniti o in nessun altro Paese per lottare per l’indipendenza dell’India. Qui in India i tibetani sono rifugiati da decenni. Hanno tutto gratis alle spese degli indiani. Soltanto non hanno il diritto di contestare la Cina. Se vogliono, lasciamoli andare in Tibet a continuare da lì la loro lotta per la libertà”. Non so se questi sono i sentimenti della maggior parte degli indiani, certo che fa riflettere.
Una di queste sere a McLeoganj, in un affollato ristorante indiano, stavo aspettando un pollo tanduri, quando al mio tavolo si è seduto un giovane che era appena arrivato da Delhi. Mi ha detto che due giorni prima mi aveva visto fare delle foto a una manifestazione davanti al Jantar Mantar. Vive a Pokara, in Nepal, ed è un medico. Era scosso. Mi ha confessato che la sua ragazza, che abita a Dharamsala, l’aveva piantato dopo 4 anni. Poi abbiamo parlato del supporto degli Usa al Dalai Lama. “Mio padre era un guerrigliero negli anni Sessanta – mi ha detto – quando la Cia ci dava soldi e armi per combattere. Vogliamo lo stesso adesso dall’Europa o dagli Stati Uniti. Vogliamo fare cosa quelli di Al Qaeda fanno contro gli americani”. Interessante, eh? Povero Dalai Lama, vecchio monaco ridanciano, e il suo appello alla non violenza e al diritto di Pechino di ospitare le Olimpiadi. Già quando ero andata a Dharamsala l’ultima volta, due anni, fa avevo avuto la sensazione che i giovani fossero stufi del famoso “middle path”, l’approccio moderato che non rivendica l’indipendenza del Tibet, ma solo “autonomia”. Adesso ne ho avuto la conferma.
Ci sono anche altre cose che non mi convincono. I monaci che per esempio hanno gli ultimi modelli di telefonini e di I-Pod. Ma come fanno a permetterseli e a cosa servono? Mentre eravamo sul bus di ritorno a Delhi, mia figlia, che ne capisce qualcosa più di me, mi faceva notare un i-Touch Phone che un monaco aveva tirato fuori furtivamente da sotto la tonaca.
Un altro elemento che mi lascia perplessa è la presenza sulle bancarelle di McLeoganj di prodotti “Made in China”, tipo souvenir, scarpe e giocattoli. Ma come è possibile??? Capisco che oggi è impossibile boicottare i prodotti cinesi…richiamo di andare in giro come Adamo e Eva…ma almeno un po’ di decenza!

Chiamami Peroni...ecco la Delhi da bere


Due giorni fa mi trovavo a sorseggiare una birra Peroni Nastro Azzurro alla fashion week di Delhi. La birra ex italiana figura tra gli sponsor delle sfilate che si tengono nella fiera del Pragati Maidan. La si trova nello spazio allestito dal ristorante “Olive Beach”, uno dei più trendy della capitale che è di solito frequentato dai belli e famosi di Delhi. Mentre parlavo con lo chef Giuliano Tassinari mi sono ricordata della Milano da bere degli anni Ottanta, quella dei nani e delle ballerine, delle mutande griffate e dei “lei non sa chi sono io” davanti ai locali di Brera.
I nouveaux riches sono uno dei sottoprodotti della nuova India emergente e sono oggi i più coccolati dalle multinazionali del lusso che dopo la sbornia consumistica in Occidente puntano ai grandi mercati di Cina e India. La fashion week di Delhi è in teoria un evento di business, dove gli stilisti indiani mostrano le loro collezioni ai buyers internazionali, ma in realtà è anche una vetrina per il bel mondo. Intorno a me c’erano raffinate ragazze in fuseaux e tacchi a spillo, non bellissime, ma decisamente sofisticate nella scelta degli accessori. Purtroppo non sono più a Milano da tempo e temo di essere fuori dal giro dei modaioli. Però ho notato un’invasione di occhiali Dolce e Gabbana e una varietà di strane e coloratissime scarpe maschili. C’era anche qualche straniero estroso, un sudafricano vestito con un sari che davanti alle telecamere decantava la comodità degli abiti senza cuciture. Chiaramente tutti con i telefonini ben in vista e pronti a fare dei grandi cenni con le mani per richiamare lo sguardo di persone all’altro capo della sala. L’importante è “esserci”, non “essere” in queste occasioni che sono seguite da decine di televisioni e giornali per i cinque giorni delle sfilate. Quest’anno poi c’è stato anche il mini scandalo del seno scoperto della modella straniera Debbie, a cui è scivolata una spallina di un abito da sera di Rajesh Pratab Singh. Non penso altro evento abbia una così vasta copertura sui media indiani a parte Bollywood, il cinema indiano che è anche questo completamente staccato dalla realtà. La fashion week, come Bollywood vende sogni alla maggioranza degli indiani fuori dalle passerelle del Pragati Maidan e che con una birra Peroni campano per un mese. A proposito. Non mi ricordavo più il suo gusto, un po’ amarognolo, per chi come me è abituato alla Kingfisher, l’onnipresente birra del magnate Vijay Mallya, proprietario di una compagnia aerea e ora anche di una scuderia di Formula Uno che ha ingaggiato Fisichella. Chissà che il martin pescatore Kingfisher non arrivi prima o poi alla fashion week di Milano….

Le capanne di Carlito e le testuggini di Galgibaga

Sono stata negli ultimi dieci giorni a zonzo tra le spiagge di Goa, ex colonia portoghese, ex ritrovo degli hippies e purtroppo ex paradiso naturalistico. Oddio, non tutto è andato perduto. L’impronta portoghese è ancora evidente nelle chiese immacolate, negli stretti tailleur delle signore e nell’atmosfera un po’ retrò che penso neppure a Lisbona si trovi più. Non è raro trovare anche qualche goano nostalgico che afferma che si stava meglio quando si stava peggio, ovvero sotto il Portogallo che ha perso le sue colonie indiane solo nel 1961. Sono rimasti anche i figli dei fiori tra Anjuna e Vagator con il corollario di chilum, falò sulla spiaggia e i racconti sciamanici di Castaneda. E, per fortuna, la spazzatura non ha completamente ricoperto spiagge e fiumi. C’è ancora qualche angolo tropicale incontaminato.
Goa rimane il posto di mare più bello dell’India e devo ammettere che sta resistendo bene anche all’onda d’urto del boom economico. Forse per poco, dicono alcuni, che temono la cementificazione delle coste e l’arrivo del turismo di massa. Si narra che la mafia russa abbia comprato intere baie per riciclare il denaro sporco. Si narra anche che i tour operators e le grandi catene alberghiere vogliano aprire mega resorts con campi da golf e piscine stile caraibico. Per ora non è avvenuto nulla di tutto ciò. L’ultimo cinque stelle è l’Intercontinental Hotel, aperto 4 o 5 anni fa e che occupa un intero litorale. Più a sud del complesso, dopo il villaggio di pescatori di Talpona, c’è Galgibaga, o Turtle Beach, così chiamata perché è una delle spiagge dove nidificano le testuggini Olive Ridley, che sono in via di estinzione. Da novembre a marzo queste testuggini giganti nottetempo depongono dalle 40 alle 50 uova in buche che scavano sulla spiaggia. Sono piccole come quelle delle galline, ma più gelatinose. I nidi sono poi recintati e sorvegliati da alcuni guardiani pagati dalla municipalità e qualche volta anche da volontari del WWF. Mentre l’anno scorso c’erano 18 nidi, quest’anno ce ne sono solo tre. L’ultima testuggine è arrivata il 26 febbraio. Perché? Azzardo una spiegazione. Approfittando dell’arrivo di nuovi turisti, in “fuga” dalle ormai troppo affollate spiagge di Palolem e di Agonda, alcuni pescatori hanno costruito delle capanne di bambù, dei “coco-hut” come vengono chiamate, nella pineta davanti al litorale. Anche se molto discrete, sono aumentate le presenze sulla spiaggia “protetta. Con un po’ di senso di colpa anch’io ho passato un paio di giorni da Carlito, un simpatico ometto, che abita davanti al mare e che gestisce un piccolo ristorante. Di fianco a casa sua ha costruito un paio di capanne che affittava a 300-400 rupie. Quando sono tornata a trovarlo, una settimana fa, Carlito stava smontando i suoi coco-huts. Le autorità locali, il “panchayat”, gli aveva revocato l’autorizzazione stagionale. Lui dice che un nuovo componente del consiglio di villaggio, appartenente al partito Bjp (la destra indiana) si era opposto a questo nuovo "business alberghiero". “Non capisco – mi ha detto Carlito che ha già presentato ricorso – perché noi di Galgibaga non possiamo avere huts mentre quelli di Morjin o di Agonda hanno i permessi. Anche quelle sono spiagge dove nidificano le tartarughe”. Mi dispiace per Carlito, che ha perso una fonte di reddito, ma per Goa e per le testuggini forse è meglio così. Ed è anche la dimostrazione che in India, tutto sommato, funziona un sistema di regole e di controlli. Goa non diventerà la Thailandia, almeno per ora.