Il Titanic europeo visto dalla scialuppa indiana


Vedere l'Italia da qui e' come vedere il Titanic che affonda mentre si e' su una scialuppa di salvataggio. Non scherzo, questa e' l'impressione qui in India. Forse il barchino con 1,2 miliardi di persone a bordo sballonzollera' un po' per via del risucchio e ci sara' un po' di paura a bordo, ma si e' sicuri di stare a galla. La crisi dell'euro ha gia' picchiato duro sull'economia indiana che e' in frenata. Il ministro delle Finanze ha corretto al ribasso le stime del Pil che ora sono al 7,5%, sempre un'enormita' per i nostri livelli, ma distante dall'ambizioso traguardo del 9% dichiarato all'inizio dell'anno.  

Ma non e' certo questo parametro, tra l'altro molto discutibile per misurare la ricchezza di un Paese, che conta in questa terra che in 5 mila anni di storia e' rimasta piu' o meno uguale a se stessa nonostante catastrofi naturali, invasioni armate e l'influenza di religioni come buddismo, nato qui, il cristianesimo e da ultimo l'Islam.  Nulla, tutto scivolato via come una goccia di rugida su una foglia di banano.

Da qui si riesce anche a capire qualcosa di piu' sulla crisi finanziaria in Europa. L'India insieme ai colleghi del Bric (Brasile, Russia e Cina) ha fatto capire fin da subito che non ci sarebbe stato nessun salvataggio. ''Che si aggiustino'', e' stata piu' o meno questa la risposta dei Paesi emergenti che fanno parte del G20.

Il fatto che qui - giocoforza - si leggano poco i giornali italiani, e' poi un vantaggio per comprendere un po' di cose.

Per esempio The Hindu ospita la colonna di Paul Krugman, premio Nobel per l'Economia nel 2008, quindi non l'ultimo dei fessi. Nel suo ultimo intervento ''Killing the Euro'' critica i governi europei per introdurre le draconiane manovre di austerity che inevitabilmente rischiano di scatenare la recessione e quindi deprimere ancora di piu' la fiducia degli investitori sull'euro. Per caso qualcuno in Italia ha mai detto cio'?  Invece di prosciugare come delle sanguisughe i portafogli dei cittadini per salvare dallo spauracchio di  ''dafault'' improvvisamente saltati fuori, non sarebbe meglio dare la priorita' alla ricerca, scuola e innovazione aziendale?

SHEKHAWATI 5/ Mandawa, un hotel da favola e le invenzioni del secolo

   In un momento di follia, mi sono regalata un paio di giorni in un hotel ''heritage'', un gioiello di haveli trasformato in albergo, molto semplice e spartano. L'Hotel Mandawa Haveli, vicino alla ''porta di Sonathia'' e' un biju' che raccomando veramente. Con un minimo di 1.000-1500 rupie (20-25 euro) si entra in una favola da mille e una notte. Non quel lusso artificiale dei cinque stelle o quello pacattaro dei vari palazzi rajasthani con l'aria condizionata e la jacuzzi. Ma una esperienza emozionante di vivere in un autentica haveli.
    Ho voluto incontrare il proprietario Dinesh Dhabai, uno che cura personalmente ogni particolare, compresa l'accensione delle candele alla sera. Ha comprato l'haveli una ventina di anni fa e l'ha restaurata, facendo anche delle aggiunte piu' moderne. L'arredo e' semplicemente fantastico.
   La mia cameretta era al primo piano, divisa in due spazi, uno con il letto a una piazza e mezzo e un piccolo salottino con le tipiche finestre di legno con le borchie. E un'altra zona rialzata dove e' stato ricavato il bagno, diviso solo da una tenda. Le finestrelle colorate creano un caleidoscopio di colori.  Le camere si affacciano su un cortile completamente affrescato che di sera si illumina grazie a lampade e lumi.
   Gli affreschi piu' belli, sono purtroppo su un muri esterno che viene usato come retro della cucina. Ci sono delle scene di kamasutra, tra cui anche quelle tra una coppia di cammelli e una di elefante. Peccato sono molto sbiadite. Tra le altre scene c'e' quella di una donna che partiorisce e del primo treni a vapore.
   Sui muri di Mandawa sono dipinte anche le invenzioni dell'epoca. Gli esempi piu' belli sono sulla Bhinsidar Newatia Hevali, una fatiscente haveli posseduta da una banca che non sembra molto interessata a preservare il patrimonio che occupa). C'e' il telefono, la bicicletta e perfino il primo volo dei fratelli Wright! Curioso, davvero...erano le notizie che arrivavano dall'Occidente...

SHEKHAWATI 3/ I vitelloni e ''150 la gallina canta''

   Mandawa, il piu' frequentato dei posti nello Shekhawati, e' piena zeppa di turisti in questa stagione. Siccome il posto e' piccolo, e' praticamente impossibile fare un passo senza che qualcuno ti chieda se vuoi visitare le haveli, se hai bisogno di un hotel o semplicemente di una guida. E' un po' asfissiante questa finta cortesia. Il Rajasthan non e' di fatti tra i miei posti preferiti in India proprio per questo ''assalto al turista''.
   Con una donna da sola e' ancora peggio. A volte rifiuto con gentilezza, altre volte mi scappa la pazienza e rispondo male, soprattutto quando sono concentrata sulle foto e mi bombardano con domande tipo dove sto, con quale mezzo sono arrivata, quando parto, quanti anni ho, dove sono i miei amici, eccetera. Insomma una schedatura che purtroppo non e' quasi mai disinteressata. Ma serve per capire le ''esigenze'' del cliente e offrire quindi servizi su misura.
   A Fatehpur (a 30 chilometri da Mandawa), stavo comprando una semplice crema perche mi sono scottata in moto, e sono arrivata al punto da allungare dei soldi a un ragazzo che aveva deciso seguirmi, pur di levarmelo di torno. A volte si offendono perche' in Rajasthan c'e' una mentalita' molto conservatrice e le donne sole vanno protette secondo loro, come per i mussulmani. Ma non avevo altra soluzione. Essere maleducati e' l'unico modo: dopo un po' la voce circola che sono ostile e si limitano a salutarmi da lontano.
   La mia irritazione verso questi ''vitelloni'' rajasthani aumenta poi quando ti approcciano parlando in Italiano. Chissa'... quasi sicuramente facevano cosi' anche i vitelloni nostrani con le tedesche a Rimini negli anni Sessanta. Sono estramente scaltri, quasi sempre azzeccano subito la tua nazionalita' appena metti piedi in paese, anche nel caso mio, che non ho autisti, prenotazioni o comitati di accoglienza.
    Vorrei poi capire, anzi non-so-cosa-pagherei per sapere chi diavolo e' che ha disseminato qui in India la filastrocca ''Centocinquanta la gallina canta''. Quando viaggio nei posti piu' turistici mi capita con abbastanza frequenza di trovare in giro dei ragazzi giovani che appena ti vedono ripetono la strofa come dei robot, senza peraltro saperne il significato. Penso che in Italia pochissimi bambini conoscano questa vecchia filastrocca...io stessa non me la ricordavo piu' e sono andata a recuperare il testo (eccolo qui) per capire se c'era qualche recondito legame con l'India. Lancio qui un concorso per scoprire le origini della diffusione di ''150 la gallina canta'' nel subcontinente indiano....

Yamuna gemellata con Elba, bravi i tedeschi!

Chi poteva avere il coraggio civico di fare una mostra d'arte e dei concerti sulle rive della Yamuna a New Delhi? Soltanto i tedeschi con la loro profonda coscienza ecologica. Il fiume che attraversa la capitale, un affluente del Gange, e' una cloaca dove non c'e' piu' vita da decenni ormai. Sono soltanto liquami in pratica. Le sponde ci sono, per fortuna, ma sono abbandonate. Come e' abbandonato anche un progetto dell'amministrazione locale di fare un parco, chiamato Golden Jubilee Park, vicino a un ponte di ferro costruito dagli inglesi cent'ani fa, che e' anche il' piu' vecchio ponte sulla Yamuna. Una meraviglia dell'ingegneria civile e simbolo della prima industrializzazione che ancora oggi serve sia per auto che per i treni (e' su doppio piano). Ebbene in questo spiazzo, per fortuna non cementificato, il ministro della Cultura tedesco e il Goethe Institute hanno montato una mostra ''Project Y. A Yamuna-Elbe Public Art and Outreach Project'' (vedi qui), che in realta' e' un gemellaggio con il fiume Elba che attravera Amburgo.

Ho passato una piacevole domenica pomeriggio a guardare le installazioni, tra cui una ''terrazza'' panoramica sul fiume, proiezioni sulla vita dei pescatori e altre sculture simboleggianti l'inquinamento e la sofferenza del fiume. Tra gli artisti indiani anche il keralese Gigi Scaria che ha partecipato alla Biennale di Venezia nel padiglione dedicato per la prima volta all'India con un ''Elevator from the Subcontinent''.

Alla sera poi le installazioni si sono illuminate e cosi' anche il ponte di ferro. Se non fosse per i liquami sottostanti e l'odore di fogna...sembrava quasi romantico, come stare al Valentino, sul Po a Torino o sulla Senna a Parigi.

SHEKHAWATI 2/Una francese a Fatehpur, l'haveli di Nadine

A circa 30 chilometri da Mandawa, che e’ la piu’ frequentata dello Shekawati, c’e un'altra citta’ ricca di haveli, e’ Fatehpur. Piu’ grande, con un centro storico che sembra un labirinto e decisamente piu’ caotica e sporca, e’ un altro dei crenti decaduti della via della Seta. La maggiore attrazione qui e’ una haveli acquistata oltre dieci anni fa da un artista francese, Nadine Le Prince, (vedi qui) una raffinata signora ora di 65 anni che fa la spola tra Parigi e lo Shekawati, che ha un antenato associato con Diderot e - chissa’ come - si e’ innamorata di questo angolo remoto del Rajasthan a tal punto da comprare e restaurare uno di questi palazzi abbandonati.
   Onestamente mi fa sempre un po’ impressione qualndo il patromonio storico di un paese finisca nelle mani di stranieri, anche se per una buona causa. Ma – come mi hanno spiegato qui – meglio cosi’ che abbandonare all’oblio questi tesori.
   L'haveli e' un po' fuori dal centro e la visita costa un po' delle altre, 200 rupie a testa. Nel tour mi ha accompagnato una giovane laureanda francese di arte e comunicazione che sta facendo un internship di tre mesi. Abita nell'haveli insieme ad altre ragazze giovani e meno giovani che intravedo. Nadine non c'e', mi dice, arrivera' a fine gennaio.
   Sara' forse perche' e' alla fine del suo periodo, ma non mi sembra molto entusiasta nel raccontarmi la storia dell'edificio. E' stato comprato nel 1999 da discendenti di una famiglia di commercianti che ora vivono a Calcutta, cosa abbastanza insolita perche' non e' facile per stranieri acquistare proprienta immobiliari qui in India. ''Siccome c'erano solo 4 eredi e' stato abbastanza facile'' mi spiega. La maggior parte degli affreschi sono stati restaurati, ma rimane ancora qualche originali sui muri alti e sotto le tettoie. La costruzione risale al 1802 e ha una pianta tipica delle haveli: un primo cortile circondato da una veranda per ricevere i visitatori e da una saletta dove gli ospiti si riposavano. E un secondo cortile, privato, dove vivevano mogli e figli. Gli affreschi nel cortile pubblico erano piu' giocosi e allegri, con molte danzatrici e ''intrattenitrici'' del padrone, ritratto anche lui. Mentre nel secondo cortile i soggetti sono relativi a imprese di guerra e scene mitologiche, perche' mi spiega la mia giovane guida ''servivano all'istruzione delle donne che erano recluse per tutto il tempo tra quelle quattro mura''.
   Oltre a essere una meraviglia per lo stato degli affreschi, l'haveli e' interessante perche' e' completa'', ovvero ci sono anche le stalle e gli spazi dove alloggiavano le carovane, oltre al ''garage'' per le carrozze. In un edificio, Nadine ci ha fatto un esibizione di opere d'arte sue e di altri artisti indiani. Qua e la' ci sono oggetti d'epoca, tra cui un antico palanchino, un arcolaio e una magnifica carrozza ancora intatta. Insomma e' un tentativo di fare un museo della cultura delle haveli..che tanto manca.
   L'unico vero e proprio museo esistente nello Shekhawati e' quello di Ranmath A. Podar, nella citta' di Nawalgarh, dove ho passato una notte. La famiglia Podar, (vedi qui) associata con il Mahatma Gandhi, fanno parte di quegli industriali ''illuminati'' in India. Ha aperto molte scuole e ospedali e i discendenti ancora si occupano nella casa di famiglia, anche se non ci abitano piu'. C'e' una giovane ragazzo, Rahul, come guida, molto in gamba che ha una venerazione per i proprietari dell'haveli. Il museo e' interessante, perche' e' storico-etnico, con molti particolari sulla ricca cultura del Rajastham, tra cui i turbanti, le feste, i matrimoni e i gioielli.

SHEKHAWATI 1 / Sic transit gloria mundi

Sono nella regione dello Shekhawati, nel Rajasthan nord orientale, una parte un po' fuori dal classico percorso turistico, ma che nel ''Rinascimento indiano'' era sulla via della Seta, quindi un punto di passaggio per i carovanieri provenienti dai porti del Mar Arabico e diretti nelle citta' della pianura del Gange. Di sicuro qui giravano i soldi, non si potrebbe spiegare la ricchezza delle ''haveli'', le case signorili completamente affrescate, che sono la principale attrazione. A Mandawa, dove il patrimonio e' stato per fortuna piu' preservato, mi trovo in una haveli convertita in un hotel e ovviamente di grande fascino per i tipici affreschi di questa regione. I ricchi uomini di affari dello Shekhawati avevano senza dubbio un amore per l'arte a tal punto che e' nata una scuola di pittura locale. Per fortuna, molto e' stato preservato alle razzie dei vari invasori, specie dai mughal che qui non sono mai arrivati. Forse sono state le scarse comunicazioni a salvare questo angolo di Rajasthan. Ancora oggi arrivare qui e' un'impresa, una specie di rally nel deserto, per lo stato delle strade. Ma meglio cosi'... Mi immagino con curiosita' quale bellezza doveva essere stata la citta' nel 1700 e 1800, come vivevano i residenti di queste case e poi il declino con l'arrivo degli inglesi che hanno preso in mano il commercio e aperto altre rotte. E i commercianti dello Shekhawati se ne sono andati a Mumbai e Calcutta lasciando indietro le loro belle e ricche magioni. ''Sic transit gloria mundi'', come dice il detto latino rispolverato di recente dall'ex premier italiano a proposito della caduta di Gheddafi e diventato valido anche per lui. E' andata cosi'. Il dramma e' pero' che la caduta dalla gloria dei tempi d'oro dello Shekhawati purtroppo non si e' ancora arrestata e che il patrimonio locale e' a rischio di finire nelle mani rapaci dell'industria turistica. Il castello di Mandawa ne e' un esempio. Meta' e' stato trasformato in hotel di lusso, dedicato soprattutto ai viaggi organizzati (adesso e' pieno, e' alta stagione, soprattutto turitisi da UK), l'altra meta' giace abbandonata. Mi hanno detto che la proprieta' era stata divisa un secolo fa tra due litigiosi fratelli discendenti del potente del loco. Mentre uno ne ha fatto un albergo, l'altro l'ha ceduta a una famosa catena alberghiera indiana, che non ne ha fatto nulla. Cosi' meta' del castello e' stato ridipinto di bianco e l'altro e' rimasto come era in origine, molto meglio direi, ma nella completa incuria. Questo e' quanto ho visto dal cancello aperto, perche' una guardia mi ha chiesto 250 rupie per la visita all'albergo, comprensiva di un ''drink'', come mi e' stato detto. E' il primo caso di biglietto di ingresso in un hotel, ma capisco che in effetti mantenere questi gioielli di architettura ha un costo altissimo.

Happy Diwali!


Stasera in India si festeggia il Diwali o Dipavali, la ''festa delle luci'', considerata anche il Capodanno indiano. E' usanza illuminare con candele e luminarie l'ingresso della case perche' e' in questa notte che passa la dea della ricchezza Lakshmi. Ma ci sono anche altre storie e mitologie associate con la celebrazione religiosa che e' la piu' importante tra le festivita' induiste.
Nella foto si vede la composizione sulla soglia di casa mia in Safdarjung Enclave, nel Sud di Delhi.

Yoga, la '''posizione del pollo'' di Chandrakant

   Dopo tanti in India ho scoperto lo yoga grazie a un maetro di un ashram di Rishikesh, uno dei posti che piu' amo. ''Yogi Chandrakant'' come si fa chiamare, e' l'icona tipo del maestro di yoga nell'immaginario occidentale. Ovviamente ha molto successo con gli stranieri e penso anche si sia anche adattato alle ''nostre'' esigenze di occidentali.
Discendente di una famiglia di yogi di Dehradun, decisamente carino, i capelli un po' riccioluti e gli occhi che ridono, e' un vero animale da palcoscenico. Magari non sara' al top come capacita' yoghistiche, ma ha davvero una vocazione per insegnare e soprattutto divertire.
L'ashram e' a Laxmanjhula, nel ''ghetto turistico'', direttamente sul Gange. Le lezioni sono alle sette del mattino e alle cinque della sera. Costano appena 100 rupie. Io ne ho fatte una decina, ma e' stata durissima, anche se non ho mai riso tanto in vita mia. Una sevizia, ma divertente e anche educativa.
La tecnica di Yogi Chandrakant e' quella di spiegare le cose con una semplicita' quasi comica. Penso sia inconsapevole da parte sua. Probabilmente il suo inglese che fa ridere o forse io da ignorante di yoga ho trovato le ''asana'' veramente esilaranti. Ma devo dire che ridevano anche i miei compagni. A volte eravamo in sei o sette, ma l'ultima lezione e' stata la piu' affollata, oltre una ventina.
La mia preferita e' la ''murgh asana'', la posizione del pollo, che lui interpretava in maniera quasi clownesca mentre dice ''cosi' potete vedere la sofferenza degli animali''. Si mettono testa e braccia tra le gambe divaricate e poi ci si stringe il viso tra le mani. C'e' una versione immobile e una ''murg asana chalana'' dove bisogna andare su e giu' sul tappetino, come razzolare, appunto.
La regola principale di Chandrakant e' che durante gli esercizi bisogna sorridere, sempre, perche' fa bene alla circolazione, ai muscoli del viso, allo spirito, ecc. Anzi parte dell'ora e mezzo di lezione e' dedicata alla ''terapia del riso'', una tecnico molto diffusa in India. Lui ci ha detto che ci sono 90 e passa tipi di risata nello yoga. Ce ne ha fatte qualcuna, tipo la risata della ragazzina adolescente o quella di un uomo grasso. ''Se non vi viene voglia di ridere guardate qualcuno che ride'' diceva mentre ridevamo tutti a crepapelle
A differenza di altro maestri che ho conosciuto, Chandrakant spiegava minuziosamente il significato di ogni asana, traducendo dal sanscrito e elencando ogni volta i benefici alle diverse parti del corpo, comprese le ''gender parts'' (parti intime) come le chiamava e per quale funzione corporale e' adatta o quale malanno puo' guarire.
In una lezione ha poi spiegato i misteriosi (per me) chakra facendoceli ''sentire'' attraverso delle parole e suoni che dovevamo ripetere. Insomma, se qualcuno va a Rishikesh, lo raccomando davvero, lo potete trovare su Facebook con il suo nome.

BREAKING NEWS: Cancellata dall'Ordine di Giornalisti!

   Dopo 18 anni di professione giornalistica, sono stata  espulsa dall'Ordine dei Giornalisti del Lazio perche' non ho pagato le quote di iscrizione degli ultimi tre anni. Il totale delle mie morosita' ammonta a 360 euro compresi gli interessi. Ovvero meta' del mio attuale salario da collaboratrice dell'Ansa.
   Per comunicarmi l'espulsione hanno scomodato la Corte di Appello di Roma (Ufficio Unico degli Ufficiali Giudiziari) e perfino l'ambasciata d'Italia a New Delhi che mi ha consegnato la notifica (03/2011, la terza quindi dell'anno?) datata 25 luglio 2011.

   Leggo: ''il signor (SIC) Coggiola..bla bla non ha adempiuto al dovere di pagare le quote di iscrizione all'Ordine (nonostante i ripetuti solleciti) per gli anni 2009, 2010, 2011; che l'articolo 29 del Regolamento bla bla; che il rifiuto persistente del pagameto delle quote, nonostante....costituisce GRAVE PERICOLO per la vita stessa dell'Ordine che trae esclusivamente i mezzi, per adempiere alla sue funzioni, dalle quote degli iscritti; che tale comportamento costituisce violazione dei doveri professionali e fatto di scorrettezza professionale.

Ecc ecc
Firmato da Filippo Anastasi (Consigliere segretario) e Bruno Tucci (Presidente).
  
   Mi permetto di precisare per dovere di cronaca che ho scritto una mail al presidente Tucci ad agosto spiegandogli che ero free-lance e che si trattava di una somma eccessiva per i miei mezzi che sono molto limitati avendo una retribuzione che i miei colleghi spendono forse in un paio di cene.

   La risposta e' stata quella di ricordarmi i miei doveri e che potevo chiedere una rateizzazione . Non ho replicato perche' mi trovavo in un momento negativo di riflessione sul mio mestiere. Che ovviamente rimane quello di giornalista, anche se non lo sono piu' secondo questi signori.

   A pensare quel 6 giugno 1993, quando ho avuto nelle mie mani il tanto anelato tesserino rosso, non mi viene alcun rimpianto. All'epoca ero con l'Ordine Interregionale del Piemonte e Valle d'Aosta, poi da quando mi sono trasferita all'estero mi avevano detto che era meglio iscriversi all'Ordine del Lazio perche' e' li' che sono iscritti i giornalisti che hanno residenza Aire. E cosi' ho fatto nel 2007. Dubito che qualcuno abbia capito perche' mi sono trasferita e - con orrore - ho anche scoperto che nessuno sapeva che ero all'estero. Non esiste nessun elenco di questo genere e temo non sia neppure previsto. Eppure io lavoro solo per i media italiani come i miei colleghi in Italia.

   Insomma, come quando ero iscritta a Torino, non ho mai ricevuto alcuna comunicazione se non i bollettini annuali per pagare la quota.

   Nessuno si e' accorto che sono all'estero da 16 anni. Nessuno si e' accorto che sono free-lance. Nessuno si e' accorto che non ho la Casagit (la mutua dei giornalisti) e che non ho diritto all'Inpgi (la nostra pensione) anche se voglio pagare le quote di tasca mia. Nessuno si e' mai degnato di farmi sapere di eventuali agevolazioni o comunicazioni di altri iscritti al mio stesso ordine. Nessuno non mi ha mai mandato neppure gli Auguri di Natale.

ALLE SORGENTI GANGE/FINE - Dentro la centrale idrolettrica di Tehri e la pioggia divina


Da dove mi sono fermata a dormire, in una stanza del corpo forstale a Chourangikal, a circa 30 chilometri sopra Uttarkashi, ci sono ancora oltre 200 chilometri per arrivare a Badrinath, la terza tappa del pellegrinaggio del Char Dham. Bisogna praticamente scendere fino quasi a valle e poi risalire in un’altra direzione. Il Char Dham, che i pellegrini devoti fanno in 8-9 giorni inscatolati come sardine su potenti jeep e’ un vero e proprio tour de force delle abluzioni. A piedi ci si impiega tre mesi mi ha detto un baba che lo ha fatto. In basso, ormai la maggior parte dei sentieri sono stati trasformati in strade, ma in alto ci sono ancora le vecchie vie puntellate di ashram che passando attraverso boschi o in certi casi ghiacciai collegano le quattro fonti sacre.

Per il mio scooter che era sempre piu’ in affanno nelle interminabili salite, non era possibile andare oltre. Inoltre avevo ormai poco tempo a disposizione. Quindi dopo un’odissea di 100 km su una strada secondaria semi asfaltata sono tornata a New tehri. Ho costeggiato l’immenso bacino indroelettrico di Tehri sulla sponda opposta da cui sono venuta, sono scesa fino a trovare un ponte che l’attraversava e da li’ sono risalita fino allo sbarramento. In tutto il giorno avro’ incrociato una manciata di auto e incontrato pochissima gente. E’ una vallata fantasma ormai e i pochi che sono rimasti, mi sono sembrati davvero i piu’ disagiati.

Come degna conclusione del mio viaggio alle sorgenti del Gange, vado a visitare l’impianto che dalle acque del fiume produce circa mille megawatt di corrente e irriga le secche pianure del Punjab e Haryana. La diga di Tehri ha immobilizzato la dea Ganga come ha fatto Shiva con i suoi dreadlocks.

Dopo aver chiesto il permesso, una decina di giorni fa, alla Cisf (Central Industrial Security Force) che protegge aeroporti, centrali e siti sensibili, oggi sono stata accompagnata per una visita individuale nelle viscere della montagna dove le acque del Bhagirathi, captate dal bacino, scendono per tre km a velocita’ pazzesca facendo girare quattro megaturbine alte 40 metri. L’impianto e’ uno dei piu’ grandi del mondo ed e’ entrato in funzione nel 2006 dopo un progetto durato anni e anni di sbancamenti e realizzato insieme ai russi. la diga sorge in una strettissima gola alla confluenza di due fiumi, il Bhagirati e il Bhilangana. Lo sbarramento non e’ di cemento, ma e’ solo un enorme terrapieno. Quando me lo hanno detto mi sono stupita...mi hanno spiegato che e’ meglio per i terremoti vista che la zona himalayana e’ sismica.

All’interno della ‘’power house’’, dove lavorano a turno un centinaio di tecnici, ci sono diverse scritte con slogan sulla sicurezza sul lavoro e sulla virtu’ del coraggio. Al momento della mia visita, non c’era pero’ produzione perche’ mi ha spiegato un ingegnere ‘’non c’era richiesta da parte della grid’’. Una delle quattro turbine era inoltre in manutenzione. Una fase due, che aggiungera’ altre centinaia di megawat, e’ in via di ultimazione. Mi hanno mostrato delle gallerie dove saranno messe altre turbine. Sui tralicci dell’alta tensione, che partivano da fuori, un cartello avverte: ‘’Electricity is a gift of God, but it is a bad master’’, l’elettricita’ e’ un dono di Dio, ma e’ una cattiva padrona.

L’energia che si produce qui, grazie alla dea Ganga, serve anche a me a New Delhi per far funzionare il condizionatore, il frigorifero...i computer. Nell’India che vuole crescere al ritmo dell’8-9% all’anno, sempre piu’ ci vorranno sacrifici ambientali per permettere la sopravvivenza e una qualita’ di vita accettabile alla maggior parte dei suoi 1,2 miliardi di abitanti.
Con questi pensieri affronto gli ultimi 100 km verso Rishikesh, quasi non accendo il motore, tanto la strada continua a scendere.

Per la prima volta, in questi giorni, un temporale mi sorprende per strada. Per tutto il pomeriggio c’e’ stata una calura opprimente che conosco molto bene. E’ quella che precede il monsone e che ti fa sudare come una fontana anche se non c’e’ il sole e sei assolutamente fermo. Vedo le nuvole danzare con me a ogni tornante. A un certo punto la strada scompare in una foschia lattiginosa. Da lontano sento una musica, vedo degli uomini in pantaloncini e ciabatte ballare lungo il ciglio della strada sotto la pioggia avvolti dai vapori che salgono e scendono lungo i fianchi della montagna. Dalle portiere aperte dell’auto arriva il ritmo di una canzone panjabi. Sembrano in estasi. Sono appena fuggiti alla calura infernale del Punjab e si stanno godendo la divina frescura. Che loro abbiano trovato le vere sorgenti del Gange?

ALLE SORGENTI GANGE/12 - Il laghetto di Nachiketa e baba Krishna


Sperimentando le rotte poco battute del corso superiore del Gange, sono finita a Nachiketa Tal, il lago di Nachiketa, che e’ a circa a un’ora di cammino da una strada che i pellegrini usano per spostarsi da Gangotri a Badrinath, la terza tappa del pellegrinaggio del Char Dham. Il mini trekking e’ inserito in una riserva con accesso a pagamento (40 rupie). Il sentiero si snoda in un bosco di querce e rododendri ed e’ puntellato da cartelli che invitano a rispettare e ad amare la natura. Vedo con piacere, che qui in Uttaranchal c’e’ parecchia attenzione all’argomento ecologia. D’altronde, mi ricordo benissimo quando ero piccola e alcuni popolari mete alpine in Piemonte erano piene di cartacce...la coscienza ecologica richiede tempo e maturazione!

Il laghetto e’ alimentato da una sorgente naturale, ma l’acqua non e’ limpida come a Dodi Tal. Come ogni posto su queste montagne, anche questo e’ legato alla mitologia induista e in particolare alla storia del saggio Nachiketa, tratta dai libri delle Uspanishad. A raccontarmela e’ Baba Krishna, un ‘’sadhu’’ che vive in una baracca a fianco del laghetto coperta da lamiere e teli di plastica. Ancora una volta noto che estetica e misticismo non sono purtroppo in sintonia. Le sponde del lago sono state cementificate e il baba, piu' che un eremita, sembra un profugo senzatetto.

Baba Krishna, originario del Gujarat, dice di avere 92 anni e di vivere nel lago da sei anni. Per altri 18 ha girato in Himalaya fino a trovare questo posto che e’ legato alla dea Maya (dea della Morte) e al bambino Nichiketa figlio di un ''rishi'' (santo) Udalak, che viveva in questo luogo. In gesto propiziatorio, Udalak aveva deciso di donare i suoi averi alle divinita’ per avere piu’ saggezza, ma tutto quello che regala e’ una vacca malata che non dava latte. Volendo aiutarlo in uno slancio di affetto paterno, Nachiketa gli suggerisce di donare lui stesso agli dei (qui mi e’ venuta in mente la storia di Isacco e Giacobbe). Ma il padre si indigna e lo rimprovera. Nachiketa pero’ insiste e il padre, in un gesto di rabbia, gli dice : ‘’ebbeno si’, ma ti offriro’ a Maya!’’ Il bambino allora va a casa della dea della Morte, ma non la trova e allora aspetta tre giorni davanti alla sua porta senza cibo e acqua. Quando Maya ritorna si stupisce della perseveranza e coraggio di Nachiketa. E anche si vergogna della mancata ospitalita’. Quindi in cambio, concede a Nachiketa di esaudire tre desideri a sua scelta. Il ragazzo chiede per prima cosa che sua padre sia felice, poi che questo lago porti il suo nome e poi domanda a Maya di svelare il mistero della vita nell’aldila’, non proprio in questi termini, ma questa e’ la sostanza, piu’ o meno.

Baba Krishna, mi racconta questa storia seduto su un tappetino usurato vicino a un enorme bracere che lo scalda d’inverno, mentre prepara un chai. Sa un po’ di inglese, ma per i concetti piu’ difficili passa all’hindi. Prima di scegliere l’eremitaggio, ha insegnato in diversi ashram a Delhi e Pushkar che mi elenca con orgoglio. E’ convinto dell’universalita’ della religione e mi spiega anche delle sue teorie filosofiche sulla natura umana.

La quiete del lago, vicino al quale si stende un piccolo pianoro erboso dove si apre un cunicolo, che secondo lui va a Yamunotri (non ho verificato..) e la presenza di Dio (''Bhagwan'') lo appagano pienamente. Per essere informato su quello che succede nel mondo, ogni mattina ascolta le notizie in FM su una piccola radio, volenterosi e pellegrini gli portano ‘’tutto quello di cui ho bisogno’’ e dice di non essere mai stato malato. Poi parliamo delle dighe sul Gange e del cambiamento climatico. Mi parla dei ghiacciai che si restringono e della salinizzazione, ‘’tra vent’anni non ci sara’ piu’ acqua da bere nel mondo’’ e’ la sua previsione.

L'incontro mi lascia molto perplessa e dubbiosa sulla genuina scelta di vita degli eremiti. Non e’ forse piu’ comoda la fuga in un posto come questo piuttosto che combattere ogni giorno con i problemi quotidiani del lavoro e della famiglia? Mentre scendevo mi e’ venuto in mente ''Samsara'', il film di Pan Nalin girato in Ladakh (2001), con una forte carica spirituale e erotica, che parla dell’''illuminazione'' di un monaco irrequieto che sperimenta la vita materiale nel ''mondo'' e, non trovando neppure li' la felicita', ritorna nel suo monastero abbandonando tutto.

ALLE SORGENTI GANGE/11 - Baba Maharaji e il bar sport di Dodi Tal


A Dodi Tal, sopra il tempio dedicato a Ganesh, c’e’ una casupola dove da una ventina di anni vive un baba che si fa chiamare Maharaji e che ha un viso che esprime davvero una ricchezza interiore da maharaja’. Mi ha detto che ha 70 anni e che ancor prima di arrivare li’ ha deciso di abbandonare tutto e di dedicarsi alla ricerca spirituale. Non medita, non fa yoga, non prepara unguenti. Se ne sta in posizioni di loto su una coperta su un terrazzino davanti alla casa a chiacchierare con chi arriva e a farsi dei chilum con della ‘’ciaras’’ (hashish) locale che mi ha fatto vedere e che gli portano da un villaggio gia’ bella pronta. La casa del baba e’ praticamente il ‘’bar sport’’ del luogo.

Dopo una decina di minuti a Dodi Tal ci si conosce tutti. Negli ultimi 50 metri del sentiero che costeggiano il torrente emissario, ci sono alcune dhaba che praticano prezzi esorbitanti per mangiare e per una branda in un tugurio. Poi c’e’ la ‘’guest house’’ del governo dove il prezzo ufficiale e’ di 1.500 rupie e che e’ gestita da un ‘’guardiano’’ (‘’chowkidar’’). In alternativa, per chi non ha la tenda come me, c’e’ il retro del tempio, dove si dorme per terra o un posto nelle casupole dei brahmimi, due fratelli e il figlio di uno di loro.

A questa combriccola formata dal baba, dai brahmini e dal guardiano, si unisce occasionalmente anche un pastore locale e poi - naturalmente - i pellegrini o turisti. Oggi con me c’e’ un gruppo di ragazzi e ragazze di un vicino villaggio che si sono installati nel tempio con coperte e materassi.
Quando sono arrivata al laghetto, il pastore stava cercando di recuperare il gregge, circa 300 tra capre e pecore, e riportarlo sulle sponde del laghetto. Mentre fischiava e si sbracciava, il suo cane era al suo fianco con un aria annoiata.

Trovando la scena molto divertente, gli ho chiesto come mai il cane jon faceva il suo lavoro. Mi ha detto che era stato morso da altri e che era ‘’malato’’. n effetto la bestia aveva un grosso collare di ferro che, come mi e’ stao spiegato, serviva per impedire che lo azzannassero al collo. A un certo punto preso da un impeto di orgoglio, ha cercato di avvicinarsi a un caprone indisciplinato che per tutto rispota lo ha attaccato. La povera bestia e’ tornata immediatamente dietro il padrone con la coda tra le gambe.

Dopo un po’, rivedo il pastore da baba Maharaji, dove mi ero accomodata anche per iniziare la durissima contrattazione sulla guest house (sono scesa da 1.500 a 300 con ricevuta falsa di 60 rupie quindi il guardiano si e’ intascata la diffferenza). Con il cane al fianco, il pastore chiede al santone un ‘’giro’ di cilum e poi si mette a chiacchierare con i due brahmini. Il gregge si stava di nuovo allontanando dal lago, a un certo punto e’scomparso nella vallata. Gli ho chiesto se non si preoccupava, ma lui mi ha detto ‘’che non c’erano pericoli’’. Non ci sono leopardo o altri felini, l’unica causa di morte per le pecore sono delle erbe velenose. Poi mi ha detto che forse dovrebbe comprare un cane, quello dal pelo rosso (non come il suo che e’ nero) che e’ cosi’ bravo a prteggere le pecore ‘’che uno puo’ dormire tutto il giorno’’.

Al tramonto tutti i presenti, eccetto il baba, partecipano alla arthi (l’equivalente dei nostri vespri) con grande scampanellii e lunghissime litanie a Ganesh e alla sua famiglia di divinita’. Quando finisce la cerimonia, e’ calato il buio (ovviamente qui non c’e’ corrente), il baba mi invita a ‘’cena’’ che i ragazzi cucinano sul braciere del suo tugurio. Gli porto in regalo un berretto di lana che avevo trivato a Gomukh. Per la prima volta vedo come fare i ''roti'' sull’apposita padella prima e poi sulla brace. Comunichiamo poco, perche’ parlano il dialetto locale del Garhwal (Uttarakand) e anche perche’ penso che non abbiano mai visto stranieri. Le ragazze sono sorprese dal fatto he non porto l’anellino al naso e che non sia capace a stendere la pasta per il ‘’roti. Si divertono un sacco. Meno male che c’e’ il baba che capisce l'inglese e che interviene a mia difesa.

Quando esco, la costellazione del grande carro si e’ distesa esattamente sopra il laghetto in mezzo al cerchio delle montagne. Non ci sono altre stelle, ma solo la luce azzurrina della luna che sta per sorgere e che rischiare la mia stanza al posto delle candele.

ALLE SORGENTI GANGE/10 - Il lago di Dodi Tal, dove e' nato Ganesh

La vallata del Bhagirati-Ganga e’ piena di riferimenti mitologici. Uno di questi e’ Dodi Tal, un laghetto da fiaba incastonato tra verdi montagne a circa 3 mila metri, considerato il luogo natale di Ganesha, il popolare dio elefante che protegge le case degli indiani, soprattutto di quelli ricchi.

Ci si arriva con una camminata abbastanza facile ma lunga, oltre 20 chilometri, che parte da Sangam Ciatti, un minuscolo villaggio a un’ora da Uttarkashi, circondato da un paesaggio bucolico. Arrivata nel pomeriggio, ho parcheggiato lo scooter davanti a una dhaba e poi zaino in spalla sono salita circa due ore fino a un villaggio chiamato Agora dove ho trascorso la notte. Di buon mattino, dopo sei sette ore prima di salita e poi sul costone della montagna, compare il lago di forma quasi rotonda con un raggio di circa 50 metri, pieno di pesci (trote, sembrano) e circondato da conifere. Quando sono arrivata c’era anche un gregge che completava il quadro perfetto per un presepe.

Per fortuna, a parte alcuni orribili ponticelli di cemento, non ci sono altre costruzioni a parte una guesthouse governativa dove mi trovo dopo una durissima contrattazione e due bungalow, uno pero’ ridotto a uno scheletro metallico. La maggior parte dei turisti arriva con la tenda e fornello. Avendo io invece bisogno di un posto dove dormire, ovviamente mi hanno chiesto cifre pazzesche. L’alternativa era tornare indietro oppure stare in un ‘’ashram’’ di un baba, decisamente non invitante.

Mi hanno detto che ieri e l’altro ieri, in coincidenza con la festivita’ locale di Ganga Dusseira c’erano centinaia di persone a Dodi Tal. Oggi pero’ sono l’unica visitatrice ed e’ anche un po’ imbarazzante perche’ mi sento sotto osservazione. Il tempo, stamattina strepitoso, nel pomeriggio si e’ guastato come avviene di solito in montagna. Quando sono arrivata pioveva e lo specchio d’acqua perfettamente lucido era leggermente increspato. Qua e’ la’ le ‘’trote’’ saltavano fuori rompendo il silenzio quasi innaturale del posto. Mi hanno detto che la pesca e’ vietata qui, ma mi immaginavo che bella grigliata si potrebbe fare. Spesso durante i trekking solitari, quando passo ore e ore a sentire i battiti accellerati del mio cuore, mi sorprendo a pensare alle passeggiate che da bambina facevo nei boschi del Canavese quando si andava a funghi. E mi vengono in mente i panini al prosciutto e salame e le pinte di barbera che mio padre o mio nonno si portavano dietro...e poi si sciolgono ricordi dell’infanzia, gioie e sofferenze, come un una seduta psicologica.
La storia legata a Dodi Tal e’ una delle piu’ famose della mitologia induista. Un giorno Parvati, la moglie di Shiva, decise di fare il bagno nel lago e chiese al figlio di mettersi di guardia sul sentiero di accesso e di non far passare nessuno. Il ragazzo e’ cosi’ zelante che quando arriva il maestoso Shiva, lo blocca, non riconoscendolo. Shiva, il dio distruttore, lo ‘’fulmina’’ con il suo tridente (o il terzo occhio, non e’ chiaro) e gli fa saltare via la testa. Parvati, in lacrime, lo supplica di riportarlo in vita. Il potente marito la accontenta, ma gli annuncia che avra’ la testa del primo animale che passa da quelle parti. Chi arriva, tra i cedri e i rododendri dell’Himalaya? Un elefante! E cosi’ nasce Ganesh o Ganapati, come lo chiamano a Bombay.

Quando ho chiesto ai pastori del posto se nella zona c’erano anche elefanti, si sono messi a ridere, ma forse all’epoca Dodi Tal era in collina e anche non cosi’ freddo da farci il bagno....

ALLE SORGENTI GANGE 9/ Gomukh, il ghiacciaio della mucca

‘’Le acque che scendono dal cielo o quelle che scorrono sulla terra, quelle che sgorgano dai pozzi o che emergono da sole, queste pure e chiare acque che bramano l’oceano come loro ultima meta, ebbene che queste acque, che sono divinita’, mi possano aiutare sempre e ovunque’’.

Preghiera tratta dai testi sacri del Rig Veda

Gli ultimi 18 chilometri del Bhagirati (come e’ chiamato qui il Ganga dal nome di un antico sovrano), che si fanno a piedi, attraversano una delle piu’ belle valli dell’Himalaya. Il fiume sacro adorato da un miliardo d 200 milioni di persone sgorga da un ghiacciaio eterno che si chiama Gomukh, la bocca o faccia della mucca, a oltre 4 mila metri, ai piedi di un massiccio dalle nevi perenni conosciuto come Shivling (fallo di Shiva) e che costeggia il confine con il Tibet. La maestosita’ del paesaggio e la ricchezza della natura sono straordinarie. Penso sia una delle piu’ belle e intense camminate che abbia mai fatto in montagna. Alcune volte il panorama era cosi’ perfetto che ti lasciava semplicemente a bocca aperta.

Sono partita all’alba, passando dietro il tempio alla dea Ganga dove parte il sentiero per Chirbasa (9km), Bhojbasa (14 km) e infine Gomukh (circa 20km). Il trekkink si trova in un parco naturale a cui si accede con un permesso valido due giorni che costa 600 rupie per gli stranieri (100 per gli indiani). Ogni giorno aggiuntivo costa 250 rupie. Le guardie forestali chiedono poi una ''cauzione'' su ogni bottiglia o contenitore di plastica per scoraggiare che si abbandonino rifiuti. Io ho dichiarato un impermeabile usa e getta, una bottiglia di acqua, una barretta di cioccolara e un pacchetto di biscotti, ma la guardia avrebbe dovuto perquisire lo zaina per vedere se avevo altro materiale non biodegradabile. Comunque, ben fatto, veramente, ho anche fatto i complimenti per l'iniziativa e ho promesso anche di portare giu' eventuale spazzatura altrui.

La salita non e’ ripida, ma e’ costante e ardua per via della mulattiera piena di sassi appuntiti che si snoda nella vallata passando boschi e attraversando diversi rigagnoli che scendono dai ghiacciai laterali. E’ un tour de force soprattutto per l’altitudine che a meta’ cammino quando ci si avvicina ai 4 mila metri comincia a premere sui polmoni e sulle tempie. Dopo un po’, in effetti, con le gambe spezzate dalla fatica e il cuore che ogni tanto perde qualche colpo, il trekking puo’ assumere in effetti un connotato spirituale...vengono in mente parallelismi tra la ricerca delle fonti con la ricerca dell’Io profondo. La risalita del fiume si trasforma in un viaggio introspettivo verso le proprie origini....

Presa da fervore mistico, a un certo punto, quando ho visto in lontananza il grande ghiacciaio di Gomukh, un anfiteatro di sabbia e ghiaccio marrone, mi sono spuntate le lacrime. La Mata Ganga, la madre Gange, la linfa vitale di centinaia di milioni di persone, nasce proprio da qui!!! ‘’Questa e’ l’anima piu’ profonda dell’India’’ mi ha detto un baba di Hyderabad che ha fatto parte del cammino con me, con la sua tunica arancione e in ciabatte di plastica, una vecchia stampella per bastone e in mano l’immancabile barattolino di latta.

Il bello e’ che in realta’ dopo tanti giorni di fatica, il punto esatto dove sgorga l’acqua non si vede perche’ il sentiero termina un bel pezzo prima del ghiacciaio. Al diciottesimo chilometro da Gangotri, segnato da un pilone, un cartello avverte: ‘’No entry’’. Vicino c’e’ un tempietto provvisorio, sulla sponda del fiume, con un santone come guardiano che al calar del sole se ne torna a Bojbhasa (3.900 metri), il ‘’campo base’’ di Gomukh dove i pellegrini pernottano in tenda oppure in alcune guest house di cemento.

‘’Se vuoi puoi proseguire, ma a tuo rischio e pericolo’’ mi hanno detto dei militari che pattugliano la zona che e’ solo una sessantina di chilometri dal Tibet. Erano ormai le 17, ma il sole era ancora alto e ho deciso quindi di andare avanti.
La mia ricerca delle sorgenti non poteva finire cosi’. A fatica mi sono messa pazientemente a seguire il torrente lungo la sponda saltando da un masso all’altro. Dopo un chilometro, le pareti del ghiacciaio erano ancora lontane e la Mata Ganga era ancora larga una decina di metri. Salendo a carponi su una roccia piu’ alta ho visto che qualcuno aveva scritto il proprio nome e una data, 2002. Avanti, verso la sorgente mi sembrava di intravedere un accenno di sentiero perdersi della pietraia. Il fiume dopo un po’ curvava e quindi non lo vedevo piu’. A un certo punto ho sentito un rombo profondo come una scossa di terremoto e dopo pochi secondi davanti a me da una fiancata del ghiacciao e’ ruzzolato giu’ un grosso ammasso di pietre neve e ghiaccio. Impaurita ho deciso di tornare sui miei passi, non prima di farmi un autoscatto per immortalare quel momento preciso .

L’origine della Ganga per me rimarra’ un mistero.

Per la prima volta dopo tanti giorni, finalmente seguivo la corrente del fiume, invece di risalirlo e mi sembrava di scorrere con esso. Mentre mi lasciavo andare a questa nuova sensazione, ho pensato a quale follia e’ cercare l’inizio o la fine di qualcosa. E mi sono venute in mente le teorie sulla reincarnazione, il motto eracliteo Panta Rei, tutto scorre e anche il titolo del libro di Tiziano Terzani, ‘’La fine e’ il mio Inizio’’’. In ‘’Sacred Waters’’, Stephen Alter scrive : ‘’For the pilgrim who travels to the headwaters of the Ganga, the journey upstream mirrors his search for God and the ambiguities of the source suggest the ultimate enigmas of the soul’’.

A Bhojbasa sono arrivata con le gambe spezzate e i crampi della fame. Mi sono fermata nell’ashram di Baba Lal, che ho scoperto poi dallo stesso libro di Alter e’ stato accusato di aver deforestato mezza vallata, famosa per le betulle (birches). Era pieno di ospiti, io ero l’unica straniera. Molti, che pensavano di tornare a Gangotri ma era ormai buio per affrontare 14 chilometri, erano intirizziti dal freddo non avendo con se giacche pesanti. Una ragazzo, che stava male, mi ha chiesto un aspirina. La ‘’stanza’’singola che mi hanno assegnato al prezzo di 250 rupie (esorbitante per un ashram) era in un rifugio dai tetti di latta dove all’ingresso compariva la scritta ‘’dont dirty’’. Con una porta alta un metro, un lucernario e dei logori tappeti che coprivano il pavimento in pendenza. Non penso che negli ultimi anni sia mai stata pulita. Ho usato la pila di coperte come materasso e sopra ho disteso mio il sacco a pelo, per fortuna, di quelli che tengono caldo. La corrente elettrica e’arrivata – non so da dove – appena calata la sera.

Come si usa negli ashram, l’equivalente dei nostri monasteri, si mangia insieme a orari prefissati. La cena e’ dalle 19.30 ed e’ servita su un lungo tappetino disteso sul pavimento del cortile esterno. Come prevedibile, faceva molto freddo, ma non penso sia stato sotto lo zero. Puntuali, tutti gli ospiti, baba compresi, nascosti sotto spesse coperte, si sono sistemati a gambe incrociate in tre file . Mi sembrava di essere in uno degli ospizi di carita’. Mentre Baba Lal intonava un mantra a Rama, gli inservienti passavano veloce con dei secchi di metallo a riempire i piatti (fatti di foglie secche incollate) di riso, ''dal'' e ''sabsi'' (zuppa di lenticchie e vegetali misti) e ''roti'' (pane piatto cotto su una padella e poi passato sulla brace). Con una teiera riempivano i bicchieri di acqua.

Mi sono vergognata un sacco a chiedere un cucchiaio. Mangiare il riso con le mani mi e’ gia’ difficile sul un tavolo, per terra e’ impossibile senza imbrattarmi tutta. I miei compagni di mensa mi hanno guardata con un misto di compassione e divertimento.

Alla fine tutti ci siamo messi in coda per lavare bicchieri e le mani con l’acqua calda che uno dei lavoranti del baba versava da un pentolone.
Finita l’operazione, c’e’ stato un fuggi fuggi generale nelle proprie tane. Mi sono messa addosso tutti gli indumenti che avevo nello zaino. Non sono mai stata cosi’ contenta di aver un tetto sopra la mia testa e qualcosa in pancia.

ALLE SORGENTI GANGE/8 - Il figlio ribelle del brahmino di Gangotri

Per arrivare al tempio di Gangotri si percorre una strada fiancheggiata da guesthouse, dhaba e negozi di souvenir e barattoli di ogni tipo per contenere l’acqua. Come al solito, i pellegrini fanno prima le abluzioni rituali nel ‘’ghat’’ e poi vanno a pregare la dea Ganga. L’acqua del fiume e’ gelida qui, ma l’immersione e’ obbligatoria di solito dopo una ‘’puja’’ familiare assistita da uno dei tanti bramini presenti con i loro vassoi contenenti riso, incenso, le spezie e un’erba profumatissima che chiamano il Ganga tulsi (tulsi e’ il basilico, sacro per gli induisti).

Il tempio e’ di marmo bianco, costruito nel XVIII secolo da un generale nepalese, Amar Singh Thapala e contiene la statua della divinita’ che a ottobre, a Diwali, viene portata in un villaggio piu’ in basso dove risiedono i brahmini, i ‘’pandit’’. Ho scoperto che i quattro templi del Char Dham sono custoditi da quattro diverse caste di religiosi. A Gangotri ci sono i Semwal, che provengono da un villaggio chiamato Mukhba.
Nel pomeriggio, mentre ero seduta davanti al tempio aspettando che riaprisse dopo la ‘’pausa pranzo’’ incontro per caso un ragazzo che scopro essere uno dei discendenti della dinastia brahminica. Ci presentiamo e mi dice di essere a Gangotri per una cerimonia celebrata dal padre e dedicata appunto alla famiglia. Ma poi, prendendo le distanze dalla parentela mi dice che lui ha deciso di non seguire il mestiere del padre e che sta studiando informatica a Dehradun. ‘’Quindi si interrompe la stirpe di brahmini?’’ chiedo io allarmata. ‘’No, c’e’ mio fratello maggiore che continua’’ mi rassicura indicandomi un giovane vestito da pujaro. Poi quasi a discolparsi aggiunge: ‘’certo e’ un mestiere unico al mondo quello di fare il brahmino a Gangotri, ma io preferisco studiare inglese e materie scientifiche’’. La cerimonia consiste nelal benedizione di una sorta di tabernacolo e di una fotografia degli antenati e si conclude su ul palco ormaito di fiori davanti al tempio con una serie di canti sacri dove il padre, seduo su un trono e con al collo diverse ghirlande ‘’presenzia’’ e benedice i presenti. Il figlio ha partecioato la rituale, ma sei vedeva che era un pesce fuori d’acqua e che a malavoglia faceva le abluzioni e parteciava ai canti. Sembrava molto distratto e quasi si vergognava quando incrociava lo sguardo del padre, che chissa’ quale delusione deve avere provato quando ha saputo che il suo ragazzo preferiva la matematica al salmodiare versi in sanscrito in onore della mata Ganga.

ALLE SORGENTI GANGE/7 - Gangotri bloccata da gigantesco ingorgo stradale

Dopo Uttarkashi, il Gange si snoda per 100 chilometri in una stretta e tortuosa vallata piena di ‘’deodar’’ (cedri himalayani), rododendri, betulle, una grande varieta’ di fiori e campi di patate, che percorro con una corriera strapiena di pellegrini. E’ la valle del Bhagirathi, appunto come e’ chiamato qui il fiume piu’ sacro dell’India sgorgato dai capelli di Shiva che ha portato la dea Ganga sulla terra per espiare le colpe di 60 mila antenati del re Baghirat, secondo una intricata storia della mitologia induista. Shiva, il dio dell’Himalaya, e’ infatti spesso rappresentato con la dea Ganga sul capo.

A parte le nuove centrali idroelettriche in costruzione, osteggiate da ambientalisti e guru indiani (proprio in questi giorni un santone e’ morto dopo uno sciopero della fame di quattro mesi), il paesaggio e’ ancora sorprendentemente incontaminato. In alcune parti mi verrebbe da dire un paesaggio quasi giurassico, per la maestosita' e le foreste impenetrabili.

Piu’ ci si avvicina a Gangotri, la mia meta dove sorge il tempio dedicato alla dea Ganga, piu’ la gola diventa profonda, quasi orrida come se dovesse sgorgare dagli inferi. Alcune volte mi sembra quasi un fiume infernale, la Stige del traghettatore Caronte e mi viene in mente una conferenza tanti anni fa a Delhi di uno studioso che sosteneva che Dante Alighieri si era ispirato alle descrizioni del Gange nella stesura della Divina Commedia.

A una decina di chilometri da Gangotri, non si vede neppure piu’ il fiume talmente e’ in fondo a un vertiginoso precipizio con delle rocce enormi color crema e altre variopinte frutto di chissa’ quali miscele geologiche. Mi chiedo se qualcuno ci ha mai messo piede laggiu’ in fondo. Certo sarebbe un paradiso per gli appassionati di canionyng. La sensazione qui e’ di inquietudine, non certo di sacralita’.
La spiegazione di questa caratteristica del Bhagirati la trovo nel libro ‘’Sacred Water’’ di Stephen Alter, che percorre a piedi la vecchia strada dei pellegrini del Char Dham. Il Gange infatti sgorga a nord di una montagna che si chiama Shiv Ling (fallo di Linga) e quindi deve lottare disperatamente con le rocce per scendere a valle, scavando il proprio passaggio attraverso l’Himalaya che probabilmente si e’ formata dopo il fiume.

Dopo 6 ore di balzi da rodeo, la corriera arriva miracolosamente fino in fondo alla vallata, ma l’accesso a Gangotri e’ bloccato da un gigantesco ingorgo stradale. I mezzi in uscita e in entrata sono bloccati sulla stretta stradina. Io e mie compagni di viaggio quindi siamo quindi costretti a scendere dal bus e a percorrere l’ultimo chilometro a piedi tra i gas di scarico, ambulanti, mendicanti, vacche, muli e sherpa.
Certo, trovare traffico ai 3.300 metri alle sorgenti del Gange e’ una cosa che farebbe venire voglia di chiudersi in casa e sparare a vista sui propri simili. Ma e’ ‘’alta stagione’’ mi dicono ed e’ ‘’normale’’ che Gangotri sia intasata. Un poliziotto poi mi spieghera’ che ogni giorno circa 15 mila pellegrini vengono a pregare la dea Ganga e a bagnarsi nelle sorgenti che non sono qui, ma molto piu’ in su, a una ventina di chilometri di cammino, nel ghiacciaio di Gomukh. Per la maggior parte di loro il pellegrinaggio culmina in questo villaggio, che per sei mesi all’anno e’ abbandonato sotto una coltre di neve, mentre per gli altri sei e’ una sorta di Mecca dell’induismo, uno dei posti piu’ sacri dell’intera India .

ALLE SORGENTI GANGE/6 - Uttarkashi, ritrovo il Gange

Da oggi sono entrata, o meglio ritornata nella valle del Ganga, o meglio del Baghirati, come e’ chiamato nel suo corso superiore, A differenza della Yamuna le acque sono bianche e la portata e’ decisamente maggiore. Da dove mi sono fermata a Uttarkashi, una citta’ vera propria con tanto di bazar e internet cafe’, sento il rigoglio della acque. Il fiume qui e' largo un centinaio di metri.

C’e un ponte di corde sospeso, tipo quelli di Rishikesh, i ‘’jhoola’’, che ho attraversato quando ormai era buio per andare a mangiare. Le rapide esalano una brezza pungente che mi ha fatto pensare ai condizionatori che adesso andranno a tutta birra a Delhi, stretta nella morsa dell’afa pre monsoniana. All’inizio del ponte c’e’ un mercatino con frutta e verdura bellissima. L’Uttarakand (o Uttaranchal come si chiamava prima) e’ famoso in particolare per le patate (‘’alu’’) e i cavolfiori (‘’gobi’’)

Il viaggio per arrivare a Uttarkashi e’ stato a dir poco infernale. Per diversi chilometri la strada non e’ asfaltata e con la pioggia e’ diventata un percorso da motocross. A un certo punto poi un tizio mi ha supplicato di dargli un passaggio fino a Barkot dove per fortuna un tizio mi ha venduto un un litro di benzina che mi ha permesso di attraversare la vallata e di raggiungere 80 chilometri dopo il corso del Bhagirati (Gange).

Da qui alle sorgenti ci sono circa 100 chilometri di strada sconnessa...troppo per il povero scooter che lascero’ parcheggiato davanti alla guest house dove pernotto.

ALLE SORGENTI GANGE/5 - Dove nasce la sacra Yamuna, tra terme e sherpa nepalesi

La sorgente della Yamuna, il fiume piu’ sacro in India dopo il Gange, si trova in fondo a una stretta gola a oltre 3.200 metri altitudine. L’acqua proviene da un ghiacciaio visibile sulla montagna di Bander Poonch (6.316 metri), dove il dio scimmia Hanuman ha ''spento'' la sua coda in fiamme dopo una battaglia contro il demone Ravana dello Sri Lanka.

Circa un secolo fa, un maharaja di Jaipur ha costruito qui un tempio in onore della dea Yamuna, personaggio mitologico che e’ sorella di Yama, divinita’ della Morte e di Surya, il dio Sole. Con gli anni e dopo diversi terremoti, intorno al tempio e’ sorto un ashram e diverse strutture di cemento decisamente orribili, ma - si sa – e’ inutile cercare nell’induismo canoni estetici che appartengono alla tradizione filosofica greca e occidentale.

Per la natura rigogliosissima, le foreste profumate di cedri himlayani (‘’deodar’’) e di rododendri puntellate di cascate e del bianco scintillante dei ghiacciai, il posto ha invece una grande energia.

Mi piace molto l’idea di venerare i fiumi e associarli all’idea di ‘’madre’’, origine della vita. L’acqua sorgente di vita, e’ un concetto universale che si trova anche nel cristianesimo. Non e’ con l’acqua del Giordano che Giovanni Battista ha battezzato Gesu’? La medesima acqua del fonte battesimale e che si asperge in chiesa durante la messa...L’acqua...tra un po’ di giorni gli italiani sono chiamati a esprimersi sul questa preziosa risorsa in un referendum. Il concetto e la simbologia dell’acqua e’ forse quello che piu’ mi affascina in questo pellegrinaggio del Char Dham, le quattro sorgenti del Gange.

Il tempio di Yamunotri e’ incastonato in fondo alla vallata a cui si arriva dopo 6 chilometri di cammino abbastanza facile e agevole non fosse per la folla di devoti (‘’yatri’’), muli, portatori e portantine, trattorie, negozi e anche la polizia con i fischietti. Non certo una combinazione ideale per la sacralita’ del luogo.
La povera madre Yamuna – ‘’Jai Mata Devi’’ (Viva la Madre divina ) e’ quello che ripetono a ogni svolta della mulattiera di cemento – sembra essere bisfrattata anche qui oltre che a New Delhi, dove funziona da rete fognaria per la metropoli.
Lungo il sacro torrente, in prossimita’ delle dhaba e degli ambulanti di chai, sorgono intere discariche, soprattutto bottiglie e bicchieri di plastica, oltre agli impermeabili usa e getta. Mi hanno detto che i rifiuti biodegradabili sono interrati e la plastica bruciata, certo pero’ non e’ un bello spettacolo.

Il sentiero parte da Janki Chatti, un ex alpeggio con una decina di baite baite che vedo, oggi trasformato in parcheggio e immensa stalla per le centinaia centinaia di muli con i campanelli e le bardature colorate che vanno su e’ giu’ per trasportare anziani, bambini, cardiopatici e anche moribondi. La stagione e’ corta qui, solo sei mesi, poi l’intera vallata si chiude e anche i bramini del tempio se ne vanno.
Dal villaggio di Karadhi, dove mi sono fermata per la notte, c’e’ un’ora e mezza di macchina. In passato la strada si fermava prima a Hanuman Chatti e quindi c’erano 6 km in piu’ da fare a piedi.

Non volendo usare lo scooter, ho scroccato un passaggio a un gruppo di uomini provenienti dal Maharashtra occidentale che mi hanno poi ‘’adottata’’ nella camminata.

Sono partita alle 4.30, era ancora notte e due ore dopo ero a far colazione all’inizio della mulattiera con il gruppo. Verso le 11, camminando senza fretta, eravamo in cima. Una pioggia a intermittenza, per fortuna non battente, ci ha accompagnato per tutta la salita.

Sotto il tempio di Yamunotri ci sono delle vasche con acqua calda sulfurea, un fenomeno frequentissimo nell’Himalaya, motagne giovani, ancora in ebollizione. Come in altri posti anche qui la tradizione e’ di bollire le patate o sacchetti di riso che si comprano sulle bancarelle. Poi si compie il bagno rituale, separati tra uomini e donne. Purtroppo la sezione femminile, un piccolo antri buio pieno zeppo di signore che armeggiavano con sottovesti e sari, non era molto invitante, e quindo ho rinunciato al bagno caldo, ma nel tempio sovrastante ho ricevuto la benedizione della dea Yamuna, non so se vale lo stesso.

Pare che chi si bagni in queste acque sia risparmiato da una morte violenta. Ma quando ho chiesto se era vero ai miei compagni di viaggio, mi sono accorta che in realta’ non sapevano nulla della storia mitologica di Yamuna e Yama e della mitologia legata al posto. Ho notato anche che non c’erano ‘’sadhu’’, di solito presenti in gran numero in queste luoghi sacri. Qualcuno mi ha detto che sono nelle foreste o in caverne in quota a meditare. In effetti sarebbero pazzi a stare in una calca del genere. Di sicuro avranno delle vasche di acqua calda tutte per loro in mezzo alla neve...

Piu’ che la Yamuna, per me e’ stato piu’ interessante osservare il fiume umano che saliva in tutti i modi sulla montagna per bagnarsi nelle sorgenti e portare a casa le ampolle di acqua sacra (‘’da versare sulle pire funebri’’ mi e’ stato detto). Avendo gia’ compiuto il Yamarnath Yatra, in Kashmir (lo Shiva linga di ghiaccio), sapevo gia’ di questi fenomeni collettivi che poi sono simili i pellegrinaggi nostri, a Lourdes o a Santiago di Campostela.

Mi sono accorta di come la religione sia veramente la colla dell’India. Ho incontrato gente del Tamil Nadu, del Madhya Pradesh, Rajasthan, Mumbai e Gujarat. Su questi sentieri del Char Dham si vede l’India intera, nelle sue diverse lingue, cibo e indumenti. Si parla in telugu, marathi, tamil, malayalam e altri dialetti, oltre agli idiomi nazionali dell’hindi e inglese. Si trovano spesso gruppi di amici come i miei compagni che avevano un pacchetto di dieci giorni per il Char Dham o le cinquanta donne di Ahmedabad che stavano (in cinque o sei camere!) del mio albergo. Ma ci sono anche delle famiglie della media borghesia arrivate fin quassu’ in macchina in fuga dalle afose pianure di Delhi, Uttar Pradesh, Haryana o Punjab con il pretesto religioso...

L’immagine piu’ terrificante e’ stata pero' quella dei portatori nepalesi, gli ''sherpa'' che con una gerla sulla schiena attaccata alla fronte, portano su quelli che non riescono (o vogliono) camminare. Ho visto alcune donne che pesavano almeno 70 kg. E’ senza dubbio uno dei mestieri piu’ duri che abbia mai visto. ‘’Solo i nepalesi ci riescono’’, piccolo e tarchiati, le gambe che tremano e che sembramo cedere da un momenti all’altro e una perpetua smorfia di dolore stampata sul viso da cui scendono gocce di sudore.

Dopo di loro, ci sono quelli delle portantine, costretti a marciare simultaneamente come i soldati, e che portavano donne e uomini grassissimi.
A fine giornata, la pioggia, poi aveva trasformato il sentiero in una coltre puzzolente di fango, letame dei muli e urina. Le carovane e i portatori poi si erano messi a correre, sballonzollando i corpi dei loro clienti coperti da teli di plastica. Alcuni muli poi avevano iniziato a ragliare e a tirare calci. Nei punti piu’ stretti, si creavano degli assurdi ingorghi tra i pellegrini piu’ poveri in ciabatte infradito che scivolavano a ogni passo. I padroni dei muli che urlavano ‘side, side’’, i quattro uomini cavallo delle portantine che praticamente facevano il vuoto intorno a loro e i poveri nepalese, piegati sotto le loro gerle. Insomma una scena da girone infernale riservato a idolatri e pagani, naturalmente.

ALLE SORGENTI GANGE/4 - Verso Yamunotri tra le foreste di cedri himalayani


Oggi ho viaggiato quasi tutto il giorno fino alle 16 quando puntuale sono arrivati i nuvoloni da nord e si sono aperte le cateratte del cielo, ma per fortuna avevo gia’ trovato una camera nel villaggio di Kharadi, a un paio di ore da Yamunotri, le sorgenti del fiume Yaumuna, la prima delle quattro tappe del pellegrinaggio del Char Dham. La giornata e’ stata decisamente intensa, provo a sintetizzarla per punti.

- Non oso pensare quanta gente era stipata nell’hotel per la notte che e’ stata brevissima visto che gli ultimi sono arrivati a mezzanotte e alle 4 erano gia’ svegli. Dal fracasso e dal continuo bussare alla mia porta per dirmi di fare in fretta, penso sia stato un gruppo che credeva di essere di avere l’albergo tutto per se…. Quando tutto era silenzio sono uscita dalla mia tana e senza neppure fare colazione, ho lasciato senza rimpianti il paese.

- La pioggia di ieri sera ha lasciato spazio a un cielo strepitosamente blu’. Perfetto per viaggiare e per fare foto. Prima di fare colazione gia’ ne ho scattate una ventina al Gange che e’ e’ ancora imprigionato dalla diga di Tehri, ma molto piu’ piccolo.

- A colazione, o meglio una delle colazioni, perche’ mi fermo continuamente per far riposare il motore e per scattare, incontro un signore di Chennai, che non sa l’hindi e che e’ in visibile difficolta’ con i locali. E’ a meta’ del Char Dham, ha fatto Yamunotri e Gangotri, gli mancano Badrinath e Kedarnat.

- Per mia gioia e quella del piccolo motore dell’Honda Activa la strada scorre a valle dove finalmente costeggio il Bhagirathi (cosi’ si chiama il Gange a monte) che ha assunto l’aspetto di un normale torrente di montagna dalle acque bianche. Se non fosse per I contadini che arano con aratri di legno trainati dalle vacche, potrebbe essere la Dora Baltea in valle d’Aosta.

- Poco dopo Dharasu c’e’ il bivio, da una parte si va alle sorgenti dello Yamuna e dall’altra a quelle del Gange. Seguo il primo e mi ritrovo su una strada da asfaltare che mi costringe ad andare ai 10 all’ora.

- Entro nella vallata dello Yamuna, che vedo in basso, un rigagnolo argentato. Penso a come si reduce quando passa dietro il Taj Mahal e poi attraversa New Delhi.

- A un certo punto la strada si arrampica in una pineta odorosa, sono cedri dell’Himalaya (‘’deodar’’, albero di dio, dal sanscrito, vedi qui ). La strada e’ ricoperta di aghi e alla base dei lunghi tronchi dritti ci sono dei barattolini per raccogliere la resina che - pesno- sia usata per scopi farmaceutici e in particolare come repellente per gli insetti. Ragazzini lungo la strada vendono delle pigne secche enormi.

- La strada qui e’ puntellata di posti ristoro con bandierine colorate, sono baracche di fortuna ricoperti di teloni di plastica. Quando un bus di oellegrini si ferma c’e’ l’assalto al ‘’chai’’ e qualsiasi cosa di commestibile. Per fortuna hanno messo delle toilette chiuse ai bordi delle strade, per le donne soprattutto.

- Dopo Barkot, mi ferma la ‘’polizia turistica’’ che registra il mio nome su un librone chiedendomi di compilare anche lo spazio per i commenti, tipo su come e’ stato il viaggio, gli hotel, il clima (?!?). C’e’ un poliziotto, Rahul Chauhan, burlone e simpatico, che si fa fotografare con I miei occhiali da sole e che dice che una poliziotta che ha il suo stesso nome e’ sua moglie.

- La strada e’ di nuovo brutta, ci sono dei lavori in corso. Decido di mollare, ho paura che il povero scooter non regga oltre e poi c’e la pioggia imminente. Prendo una camera con presunta ‘’vista’’ sull’Himalaya e sullo Yamuna, che non c’e’ ovviamente, se non da un balconcino esterno. Non c’e’ elettricita’, ma neppure ieri dove mi sono fermata c’era. Quando arrivano i primi pellegrini, partono I generatori, sotto la mia stanza. Come ieri sera, l’assalto arriva verso le 20 quando decine di bus arrivano tutti insieme. Faccio amicizia con un albergatore. Sta aspettando 85 persone del Madhya Pradesh che hanno prenotato tre mesi fa… e che deve stipare in 17 stanze.

ALLE SORGENTI GANGE/3 – La ‘’nuova’’ Tehri e l’impatto con i pellegrini


Nell’incrocio principale di New Tehri, costruita al posto della vecchia citta' ora sommersa sotto il Gange, c'e' un monumento sferico che somiglia a un pallone da calcio. Ho chiesto a due tre persone, ma tutti mi hanno detto che e' per ''decorazione''. Il bello e' che dietro il pallone c'e' un mercato coperto che - giuro - ha la stessa forma di una cattedrale, tipo quelle goane, con una maestosa scalinata davanti. Ho chiesto se per caso era una vecchia ''chiesa'' (so la parola in hindi, e' girja ghar), ma lo hanno categoricamente escluso.

A parte le stranezze architettoniche, i poveri sfollati di Tehri non so se ci hanno guadagnato. Non so come era prima di sprofondare sotto il fiume Bhagirati, ma la sua nuova gemella a quasi mille metri piu' in su e' un orribile ammasso di cemento. Il tentativo di riprodurre la vecchia Tehri, gloriosa capitale del regno medioevale di Garhwal (vedi qui), non deve essere riuscito molto bene, nonostante la relica di una torre campanaria che era il simbolo della citta’.
Un ragazzo che era alla reception del mio hotel, uno di questi parallelepipedi di calcestruzzo con i lavandini nuovi ma senza tubo di scarico sotto, mi ha detto che ''30% e' contento, ma il 70% non lo e' affatto e preferiva stare a Tehri, che con la sua posizione strategica alla confluenza di due fiumi era il centro nevralgico della vallata. Lui aveva un ristorante prima.

Le proteste non ci sono piu' e nemmeno non c'e' traccia, ma tutti conoscono Sunderlal Baguguna, anziano pacifista e ecologista che si era battuto contro il progetto e che ancora oggi e' l'ispiratore delle battaglie contro le dighe. Abita con la moglie a Koty Colony, uno dei pochi villaggi risparmiati dalle acque. Dalla sua casa, c'e' una splendida vista dell'enorme bacino idroelettrico da cui spunta un’’’isola’’, la sommita’ di una collina dove si vedono i resti di un tempio e un palazzo storico. Una inserviente mi ha detto che era a Dehradun dove ha l'ufficio, ma sono riuscita ad avere un contatto.

Lasciandomi alla spalle la diga e il suo impressionante bacino lungo 50 chilometri, uno dei piu' grandi al mondo, mi sono addentrata nella vallata verso il corso superiore del Baghirati. La strada passa sulla cresta, non a valle e quando scende un poco, mi diverto a spegnere il motorre per sentire il silenzio della vallata.Ci sono pochi mezzi, solo bus e jeep di turisti.

Ma a causa di un temporale, che gia' si annunciava fin dal mattino, mi sono fermata prima del programma a Chamm e ho fatto il mio primo incontro con gli yatri. Il gestore dell'hotel, altro casermone, me lo aveva detto, ‘’aspetta due ore e vedrai cosa succede’’. Sono scesa a mangiare e mi sono accorta che praticamente ogni superficie disponibile e' stata occupata dai pellegrini. Nel ristorante e reception ci sono decine di corpi avvolti nelle coperte. Sembrano sfollati a qualche enorme catastrofe. La strada fuori e’ bloccata da decine di autobus in doppia e tripla fila. Ho parlato (a gesti perche' non parlavano ne' hindi ne' inglese ma solo marathi) con un gruppo che arrivava da Puna e che aveva appena completato il char dham in otto appena giorni giorni....Mi sento in colpa, io da sola a occupare una stanza dove c'e' un letto matrimoniale e un altro singolo....

ALLE SORGENTI GANGE/2 - Tehri, la citta' sommersa


Pensavo di seguire il Gange, che piu' a monte prende il nome di Bhagirati, invece la strada verso le sorgenti sale sulla montagna dietro Rishikesh e dopo una settantina di km di tornanti si ricongiunge con il fiume a Tehri, la citta' sommersa dall'omonima diga.

Appena inizia la salita, compaiono anche i famosi cartelli stradali gialli della Bro (Border Road Organization), cantonieri stradali spiritosi che hanno disseminato l'Himalaya di rime curiose sulla sicurezza stradale. In questi anni di peregrinazioni ho una discreta collezione di street board che oggi ho arricchito con nuovi slogan, tipo ''Licence to drive, not to fly''. In piu' mi sono messa a fotografare anche quelli in hindi, almeno quelli che riuscivo a tradurre.

La salita e' stata graduale, ho raggiunto i 1600 metri di Chamba, su un cucuzzolo, e poi giu' a Tehri, storica citta' sede di un regno indiano e centro di commercio dell'India britannica, oltre che punto di confluenza di due tributari del Gange. In realta' pero' Tehri non esiste piu' dal 2006 quando circa 100 mila abitanti sono stati evacuati nei punti piu' alti della profonda vallata dove oggi sorge New Tehri. Le autorita', come risarcimento hanno costruito delle casette a schiera, da lontano sembrano le colonie ebraiche.

Arrivando da Chamba si vede, lontanissima, sul fondo la macchia azzurra intenso del bacino profondo oltre 260 metri formato dalla diga che e' una delle piu' grandi in Asia, ma anche quella piu' controversa. (se volete saperne di piu', cliccate qui)A parte il danno ecologico, il problema sembra essere l'alto rischio sismico della zona. L'enome riserva d'acqua e' utilizzata per produrre elettricita' destinata a New Delhi, ma anche per irrigare le campagne sottostanti.

Gli oppositori, protagonisti all'epoca di scioperi di strenui scioperi della fame per fermare lo scempio ambientale, denunciano il prosciugamento del Gange, fiume sacro. Altre dighe sono in costruzione piu' a monte e le proteste continuano ancora ora. So che al Jantar Mantar di Delhi e' appena iniziato un nuovo digiuno degli attivisti a cui si sono uniti anche gli indu-nazionalisti.

In effetti, mi fa un certo effetto pensare che negli abissi lago ci sia una citta' sommersa. Il bello e' quando ho chiesto a un poliziotto di un hotel, di cui ho letto nel libro Sacred Water (2001) di Stephen Alter (che si e' fatto a piedi il Char Dham). Tracciando con le mani una linea immaginaria mi ha detto: ''under water , madam''.

I 150 anni dell'Unita' d'Italia visti da New Delhi


Grazie all'ambasciata e ad alcuni sponsor privati, anche gli italiani di New Delhi hanno festeggiato i 150 anni dell'Unita'. Stasera i 424 posti dell'auditorium Stein dell'Habitat Center erano tutti occupati per un mini concerto di alcune aria di famose opere, tra cui Rossini, Mascagni, Verdi, Puccini e Mozart interpretate da un trio composto dal maestro e pianista Alessandro Amoretti, dalla soprano Francesca Patane' e dal baritono Marco Chingari.

C'era piu' o meno tutta la comunita' degli espatriati, tra diplomatici, imprenditori, alcuni religiosi e connazionali di passaggio. Dai commenti generali e' stato detto che e' stata un'ottima performances, anche se con repertorio un po' difficile per un pubblico di non intenditori.

Ma per alleggerire i toni e rompere la formalita' ci ha pensato il tenore Chingari che a sorpresa ha invitato tutti quanti a cantare ''O Sole Mio''. Poi, a chiusura, l'Inno di Mameli, a grande richiesta dei presenti.

Adesso e' l'India a fare outsourcing negli Usa

A dieci anni dall'inizio del miracolo informatico indiano, che deve la sua fortuna al famoso Millennium Bug, il cerchio si chiude. Un po' come quando Ratan Tata si e' comprato la Jaguar, simbolo degli ex colonizzatori britannici.
I colossi dell'outsourcing, tipo Infosys e Wipro, hanno cominciato a 'delocalizzare'' negli Stati Uniti pescando mano dopera diventata ora a basso costo per via delle recessione.

In un'interessante inchiesta (vedi qui) dei giornalisti indiani rivelano i numeri dei nuovo fenomeno. Aegis (gruppo Essar) impiega gia' una decina di laboratori negli Usa con circa 5 mila informatici americani a libro paga e pensa di assumerne 10 mila in tre anni. Infosys, azienda simbolo del boom dell'high tech indiano intende impiegarne 1.500 entro il prossimo anno. Idem per TCS (gruppo Tata) e Wipro, gli altri due colossi dell'outsorcing che hanno i loro principali clienti proprio negli Usa.

Il verbo ''bangaloored'', coniato per gli ingegneri Usa licenziati dai loro manager che avevano scoperto i ''cyber coolies'' indiani, e' gia' fuori moda.
Gli indiani non usano il termine outsourcing ma ''assunzione locale di personale'' , una manna per i disoccupati americani disposti a lavorare a salari ''indiani''. Il fenomeno non e' solo ristretto agli Stati Uniti. Infosys ha annunciato qualche giorno fa un maxi investimento per aprire un campus a Shangai per 8 mila informatici, cinesi ovviamente.

Buddha, nuovo patrono della Formula Uno

Ma come si fa a dedicare un circuito di Formula Uno a Buddha? E' quello successo per il tracciato di Greater Noida dove il 30 ottobre e' previsto il primo Gran Premio dell'India. Lo hanno chiamato Buddh International Circuit perche' la zona di Greater Noida dove sorge, una volta bucolica localita' rurale, si chiama Gautam Buddha Nagar (letteralmente ''quartiere di Gautam Buddha, dal suo cognome Siddharta Gautama).
Chissa' magari c'e' passato da quelle parti all'epoca del suo peregrinare in India.
Ma ritornando alla F1 e alla nostra civilta' dei motori, ma come e' possibile dedicare una striscia di puzzolente asfalto su cui rombano costosissime auto a folle velocita' a un monaco che simboleggia la purezza e la pace dello spirito?

Il tracciato inserito in una ''Sport City'', costruito dal colosso delle costruzioni Jaypee, gia' e' minacciato a poche centinaia di metri da una rivolta dei contadini contro l'esproprio delle terre da parte del governo dell'Uttar Pradesh...la vendetta del Buddha?

Puttaparthi, terra di prestigiatori, dalla vibhuti al portafoglio


Avrei dovuto capire subito che a Puttaparthi sono lesti di mano. I trucchi del Sai Baba con la vibhuti, la cenere che materializzava dal palmo delle mani, sarebbe un gioco di prestigio, secondo molti. Ovviamente se lo si chiede ai devoti giurano che non c'e' nessun trucco.
Non lo so. Anche nello scoperchiamento del Santo Sepolcro a Gerusalemme ci potrebbe essere qualche illusionista...
Fatto sta che il pomeriggio prima del funerale del famoso guru, ero nell'ashram e stavo scattando fotografie - pensa un po' - a un cumulo di terra ''sacra'' che sarebbe servita per la sepoltura prevista al fondo della sala, nel punto in cui si ''esibiva'' davanti ai suoi fedeli.
Voila', una mano veloce ha tolto dalla mia borsa un voluminoso portafoglio, di quelli con tutte le tasche e taschine, pieno zeppo di carte, soldi, passoporto, patente e ogni tipo di documento originale e fotocopiato. Volatilizzato e mai piu' materializzato.
Sono rimasta solo con la mia tessera stampa al collo e 200 rupie in fondo alla borsa.
Solo dopo ho capito il ghigno beffardo del Sai Baba (vedi foto) di un grande dipinto attaccato alla parete davanti al tavolo dove scrivevo le mie corrispondenze...Ben mi sta.

E' Pasqua, Sai Baba e' morto e io sono a Puttaparthi

A tempo di record, sono arrivata stasera tardi a Puttaparthi, un ex villaggio agricolo in una parte remota dell’Andhra Pradesh, diventato famoso per il Sathya Baba. Il famoso santone con i capelli alla Jimmy Hendrix ‘’non c’e’ piu’’’ come dice la gente qui con gli occhi rossi e il viso stanco, probabilmente dalle continue veglie dei giorni scorsi.

Una ragazza, con cui ho diviso il taxi dall’aeroporto di Bangalore, mi diceva un po’ invasata ‘’voglio andare da lui, sto contando ogni secondo, ma non so se avro’ ancora le lacrime per piangere. Lavora alla Tata Motors come ingegnere, il ‘’Baba’’ gli ha parlato quando aveva sei anni e da allora e’ diventata una sua seguace.

Puttaparthi e’ il tipico caso di citta’ violentata da un edilizia selvaggia, cresciuta disordinatamente intorno all’ashram Prashanti Nilayam. Un enorme complesso, costruito da poco, che ha rimpiazzato un precedente ‘’mandir’’. Per essere la sede di una fondazione che – secondo la stampa indiana – gestisce la bellezza di 40 mila crore di rupie (9 miliardi di dollari!!!!), compresi gli immobili, e’ abbastanza deludente.
Quando sono arrivata alle 11 di sera, c’era una lunga fila, di mezzo chilometro circa, che si e’ poi smaltita in fretta . Era la fila degli uomini, mentre le donne erano separate. Quando sono entrata nella enorme sala, c’erano si’ e no’ qualche centinaio di persone. Mi sembrava una cerimonia molto raccolta.

Uomini con la tunica bianca, colore del lutto, erano seduti intorno alla bara di vetro. I volontari con una coccarda dorata facevano sfilare le persone. Nessun controllo. Fuori avevano messo un paio di megaschermi montati su dei camion mentre i poliziotti bivaccavano tutto intorno con l’aria esausta. Lungo la strada stanno ora montando delle transenne per dividere la strada tra chi entra e esce dall’ashram. La citta’ e’ stata chiusa al traffico e tutto e’ chiuso per lutto.
Non so se per fortuna o perche’ forse ho chiesto una stanza senza aria condizionata, ho trovato subito una sistemazione a un prezzo che secondo me e’ quello normale. Non mi hanno nemmeno chiesto il passaporto, chi ero o da dove venivo, anche solo per curiosita’. Il dolore e’ sincero.

Seduto sugli scalini incontro un tedesco che vive qui e che mi dice di conoscere molti italiani. Mi dice anche che domani si aspetta una grande folla. Per questo, i preparative fuori e dentro l’ashram vanno avanti tutta la notte.

Mentre dentro la sala del ''darshan'', tra enormi lampadari di cristallo infestati dalle vespe, si levano i canti funebri degli uomini, alcune donne, rannicchiate su delle coperte in un angolo fuori dalla sala, mormorano a bassa voce alcune preghiere come in un una ninna nanna.

Che bello sarebbe avere i Seven Eleven in India

Sono tornata da una vacanza in Thailandia, paese che e' decisamente piu' occidentalizzato, nel bene e nel male, dell'India, ma che non e' nemmeno la Svizzera. Bangkok e' una metropoli di 5 o 6 milioni di abitanti, la meta' di New Delhi, con tutti i problemi correlati, tra cui inquinamento, caos, degrado urbano e slum, anche se non sono paragonabili a quelli di Mumbai. Lo sviluppo urbano e' simile a quello che vedo qui nei poli tecnologici di Gurgaon o Noida. Sono rimaste intatte alcune tradizioni, come quella dei mercatini in strada e dello street food. Le guesthouse per turisti budget come me sono appena piu' pulite di quelle indiane a parita' di prezzo.
Mi ha colpito pero' la presenza di una catena di supermercati, Seven Eleven, diventata addirittura un'attrazione turistica, tanto che ci sono le magliette con il logo. La catena appartiene al gruppo Charoen Pokphand Group del miliardario Dhanin Chearavanont, che fa parte dei poteri forti della monarchia thai. Sono dei piccoli supermercati di quartiere in cui si trova tutto, ma davvero tutto, dalle schede sim al disinfettante, poi pasticceria fresca e hot dog e perfino quotidiani. In ogni angolo ce ne uno, che ti rende la vita estremamente facile.
Tornata a New Delhi, sono andata a fare la spesa da Reliance Fresh, supermercati del conglomerato Reliance (anche quelli del miliardario Mukesh Ambani, il piu' ricco industriale indiano), che - in teoria - dovevano diventare i ''seven eleven'' dell'India quando sono stati aperti 4 o 5 anni fa. Non ho mai capito perche' - forse non lo sanno nemmeno loro - e' stato un fallimento. In quello dove vado, tra Green Park e Safdarjung Enclave, uno dei pochi a sud di Delhi, e' un disastro sia per la distribuzione (scaffali sempre vuoti) che per l'igiene (penso di essermi beccata la dengue li' lo scorso anno). Sara' che ero appena arriva dalla Thailandia, ma per la prima volta ho notato i sacchetti di spazzatura maleodorante sul marciapiede, felicita' dei topi, le casse con i display sfasciati, il controsoffitto a pezzi e un caos maggiore del solito nella disposizione dei pochi articoli presenti. Morale: forse meglio cosi' per i piccoli commercianti e ambulanti, pero' quanta strada deve ancora fare l'India nella grande distribuzione!!!


PS Dopo aver raccontato la storia, qualcuno mi ha fatto notare l'efficienza dei supermercati nei grandi shopping mall della periferia, tipo Big Bazar del Future Group, di Kishore Biyani (un commerciante tessuti ora a capo di un impero di grandi magazzini che ha scritto pure un libro sul suo successo) . D'accordo, ma quanti chilometri devo fare?

India-Pakistan: diplomazia del cricket, questa volta funzionera'?

Approfittando del cricket, i due leader di India e Pakistan si incontrano oggi in uno stadio vicino a Chandigarh per parlare di pace. E’ un déjà-vu, perche’ ci avevano gia’ provato il dittatore Zia-ul-Haq con Rajiv Gandhi nel 1987 e poi un altro generale, Pervez Musharraf, con l’indu nazionalista Atal Behari Vajpaye nel 2005. In entrambe le occasioni, la cosidetta diplomazia del cricket ha fallito.

Pero’ questa strano connubio sport-pace e’ indicativo della natura delle relazioni tra indiani e pachistani, fratelli separati dalla nascita, divisi dalla religione, ma pur sempre uniti da un legame di sangue. In questi giorni, dopo che l’India ha passato il turno nel campionato del mondo di cricket (nessuno se n’e’ accorto, forse, ma c’e’ il mondiale in India) ed e’ entrata in semifinale con il Pakistan , sembra che i due governi abbiano completamente dimenticato tre guerre, minacce di attacchi atomici e complicita’ in attentati terroristici. E’ tutto un tubare come due fidanzatini che fanno la pace dopo un brutto litigio.

Il cricket ha un'enorme presa nel Sud dell’Asia, paragonabile a quella del calcio in Italia, e inevitabilmente produce deliranti euforie collettive. Oggi oltre un miliardo di persone staranno incollate davanti alle televisioni (molti in strada) a guardare uno degli sport, che per noi italiani, e’ uno dei piu’ noiosi al mondo. Non mi stupisce che nelle ore (5, 6 …10? non si sa) di gioco, i due leader trovino il tempo di fare un vertice di pace, schiacciare un pisolino e poi cenare insieme allo stadio. Anzi, sembra che l’anziano Manmohan Singh probabilmente tornera’ a Delhi in serata, e magari prima della fine della partita, mentre Yosuf Raza Gilani forse si ferma a dormire in Punjab (regione oggi divisa tra lo stato indiano del Punjab e la provincia pachistana del Punjab).

Nonostante i miei sforzi, il cricket rimane ancora un grande sconosciuto e per questo mi crea notevoli complessi di inferiorita’. Il problema e’ duplice, capire le regole e capire il linguaggio in inglese. E poi avere pazienza. Non e’ un gioco dove si vede subito il risultato. Proprio come il processo di pace tra India e Pakistan, un match che dura da oltre 60 anni.

Bill Gates, il duro mestiere della filantropia



Bill Gates e' in India per uno dei suoi frequenti viaggi per seguire i progetti della sua fondazione che si occupa di salute e lotta all'Aids. Penso che l'India sia il paese dove spenda piu' soldi e a maggior ragione visto che le condizioni della popolazione sono simili a quelle dell'Africa subsahariana nonostante le velleita' di potenza economica mondiale. Come e' noto Gates e la moglie hanno deciso di passare il resto della loro vita a fare beneficenza in giro per il mondo. C'era una bella foto di loro seduti per terra in un villaggio del Bihar mentre tenevano in braccio un neonato. In effetti, a Bill Gates, chi glielo fa fare? C'e' gente che se la spassa alla grande, con donne e lussi, anche avendo molti meno soldi e potere.
A New Delhi ha tenuto una conferenza stampa, in giacca e cravatta, dove ha spronato gli indiani a produrre vaccini low cost e trattamenti nuovi per la turbercolosi e per altre epidemie facilmente curabili come la diarrea. Con la scienza si puo' fare tutto e gli indiani in questo sono favoriti dall'enorme potenziale di ricercatori. E la sua ricetta.
Un giornalista poi gli ha fatto una domanda intelligente: ''e' piu' facile fare soldi o dare soldi?'', ovvero creare profitti o fare beneficenza? In altre parole e' piu' difficile guidare la Microsoft o gestire una multinazionale della filantropia come e' diventata la Bill and Melinda Gates Foundation?
La risposta e' stata sorprendente. ''Ci sono molte similarita - ha detto - perche' in fondo, gestire una fondazione no profit e' come gestire una societa' di software che fa innovazione, solo che invece degli ingegneri informatici, ci sono esperti di salute e scienziati che ricercano nuove terapie''.

Odissea all'alba, una tragedia omerica

Una delle menti piu' fini del giornalismo indiano Siddarth Varadarajan traccia una lucidissima analisi delle ragioni poco umanitarie della guerra il Libia in un editoriale pubblicato su The Hindu, il giornale piu' autorevole e non a caso quello che in quesi giorni sta pubblicando in anteprima i cablo indiano di Wikileaks.

Inizia cosi': ''Muammar Qadhafi may be a threat to his own people but the bombing of Libya by France, Britain and the United States demonstrates beyond doubt that these three imperial powers are a threat to international peace and security''.

Il seguito e' qui.

Austerity, niente festa per il 17 marzo

E' davvero austerity all'ambasciata italiana di New Delhi e all'istituto di cultura. La giornata del 150esimo anniversario dell'Unita' nazionale e' passata inosservata. Unico segno della ricorrenza, un mesto foglietto bianco attaccato sui cancelli della nostra rappresentanza diplomatica che annunciava la giornata di chiusura degli uffici.

So che alcuni volenterosi e (patriottici) connazionali hanno organizzato una festa privata per onorare il tricolore. La scure dei tagli ha colpito duro. D'altronde, per la mancanza di soldi, l'emergenza nucleare in Giappone e i leghisti, anche in patria le celebrazioni sono state sottotono. Se la passano male anche gli istituti di cultura come si vede da questo articolo di Rampini su Repubblica.

Ma forse e' meglio cosi'. Non e' il momento di festeggiare con tutto quello che succede nel mondo. Meglio celebrare San Patrizio, che curiosamente coincide con il 17 marzo, con una pinta di birra scozzese.