Trecento operai pachistani bruciati vivi, qualcuno si chiede come mai?

La morte di 300 operai in due diversi incendi di fabbriche di abbigliamento in Pakistan ha sollevato l'attenzione sulle precarie condizioni di lavoro nei Paesi emergenti dove si produce ormai la maggior parte dei beni che consumiamo in Occidente.
La  ''Ali Enterprise'' di Karachi era una trappola per topi come lo sono migliaia di altre aziende in India, Bangladesh e Nepal.  Tonnellate di materiale sintetico in stanzoni chiusi pieni di operai. Se succede qualcosa, e' una tragedia inevitabile.
Anzi pare non fosse neppure registrata.  Certo a Karachi, dove i gangster ammazzano a destra e sinistra ogni giorno, risulta un po' difficile far rispettare le norme di prevenzione anti incendio o avanzare rivendicazioni sindacali.
Ma quello che mi ha speventato di questa sciagura e' l'indifferenza totale da parte dell'industria locale e governanti pachistani. I media  hanno strillato un po'  sul ''piu' grave disastro industriale'' nella storia del Paese. L'attenzione e' evaporata dopo un giorno appena.
Ovviamente meglio non parlare di queste ''fabbriche'' dove si producono collezioni per le grandi catene di abbigliamento sempre piu' a caccia di profitti per sopravvivere alla crisi. Io ci ho provato a capire un po', ma i clienti sono segretissimi. Non va bene dire, per esempio,  che un costoso capo di una griffe italiana  e' stato confezionato alla periferia di Karachi. Non e' molto trendy. E poi forse chi piazza gli ordini e' spesso un intermediario, quindi e' difficile risalire all'''utilizzatore finale'' per  usare un espressione che va di moda in Italia.   

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