Sri Lanka, meglio parlare di surf


Sono appena arrivata dallo Sri Lanka, la “lacrima” dell’India come la chiamano qui, che mai come in queste settimane gronda di sofferenze e di miseria. E ora anche di fame. Leggo che tra la popolazione tamil intrappolata nella guerra ci sono stati i primi morti di stenti. Volevo raccontare la storia dei profughi della regione di Vanni, ma non mi è stato possibile entrare in contatto con loro. Il governo del nazionalista Rajapaksa, sostenuto dal clero buddista, ha imposto una rigida censura sulle informazioni che arrivano dal nord. Sono riuscita ad arrivare fino a Trincomalee, il posto più vicino al fronte e quello aperto ai turisti (sono entrata con un visto turistico). L’autista della macchina a noleggio che ho preso a Colombo non ci andava da quasi 20 anni, da quando era adolescente. All’inizio era eccitato da questo suo amarcord, poi quando ha visto i posti di blocco e ha incrociato con gli occhi l’odio dei tamil per strada, ha cominciato ad implorarmi di tornare. Pensare che ha girato il mondo, come marinaio sulle navi cargo, sa perfino il greco, ma a cento chilometri da casa sua si sente un pesce fuor d’acqua. Non parla e legge il tamil, non mangia il loro cibo e trova perfino l’acqua “diversa” da quella di Colombo. La coppia di romani, Loredana e Luca, che gestiscono il “Palm Beach Resort”, dove mi sono fermata a mangiare fettuccine all’astice (“di un tipo che si pesca solo qui”) in effetti lo guardavano con estremo sospetto. “Se vieni senza di lui possiamo dirti cosa sta succedendo qui”. La loro cuoca è rimasta orfana da piccola. I suoi genitori sono stati massacrati dai soldati cingalesi. Le spiagge bianche di Nilaveli, a nord di Trincomalee, le più belle dell’isola, trasudano ancora dell’orrore dello tsunami. Nessuno le ha ancora ripulite, sono piene di ciabatte come 4 anni fa quando sono venuta qui per la prima volta a raccontare il disastro. I pescatori non possono uscire con le barche. All’orizzonte si vedono le motovedette della marina militare. Ogni notte da questo tratto di mare arrivano centinaia di profughi con orribili mutilazioni. Sono curati nell’ospedale di Trinco, ma nessuno, a parte Onu e Croce Rossa e qualche ong come quella del San Raffaele di Milano , può avvicinarli. “Sono come prigionieri” mi dice un ragazzo tamil che gestisce i progetti della ong francese Agrisud e che non ha più notizie di suo cognato da un mese. Circolano voci di atrocità commesse dai militari cingalesi sulla popolazione civile, di stupri e aborti forzati. I giornalisti locali qui rischiano la vita e non ci vengono, quelli stranieri della Bbc e Cnn non ottengono il visto per entrare. Comunque questo conflitto non è “sexy” per i giornali, per usare un’espressione del mio ex caporedattore de Il Giornale. E non ci sono immagini da mostrare, aggiungo io, perché l’oscuramento del governo è totale.
L’attentato a Lahore, in Pakistan, alla nazionale di cricket srilankese l’altro ieri ha ottenuto più spazio che le decine di migliaia di sfollati o “desaparecidos” di questa guerra che va avanti da oltre un anno.
Bastano sei o sette ore di auto in direzione sud per dimenticare questi orrori invisibili. Ad Hikkaduwa, paradiso delle testuggini e del surf, non ti accorgi di nulla se non che ci sono pochi turisti intorno, ma è perfino meglio, i prezzi sono calati. La gente è ospitale e ti dice che la guerra è quasi finita, “c’è solo un piccolo problema su al nord”. La settimana prima un ultraleggero delle Tigri Tamil si era schiantato sul palazzo delle imposte di Colombo e un altro era stato abbattuto dalla contraerea. Agli ospiti stranieri, bloccati negli hotel nell’oscurità totale, avevano detto che era “un’esercitazione mensile”….

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