SLOW TRAVELLING/ La mia traversata Atlantica

Gran Canaria, 31 gennaio 2020


   "Perché si decide di affrontare una traversata atlantica a vela, impiegandoci mesi, quando in poche ore di aereo si possono raggiungere gli stessi posti?
Perché è il viaggio che conta, la meta serve solo a ricordarci che anche l’oceano, quell’oceano che ci sembra infinito e indomabile nelle notti di navigazione, finisce.
Perché si vuole affinare la nostra capacità di andare a vela, si vuole diventare marinai migliori, persone più forti, mettersi alla prova, imparare a prendere decisioni velocemente e sotto pressione. Non importa quale sia il motivo che vi spinge, sarà un’esperienza che non dimenticherete mai.” – 

Omero Moretti, 39 traversate atlantiche

   Ho letto che la traversata dell’Atlantico è il punto d’arrivo, l’esperienza culminante e anche il sogno più grande di ogni velista. Io ci sono arrivata all’inizio della mia “carriera marinara”, un po’ tirata per i capelli, consapevole di non essere all’altezza, ma sicura di compierla con un capitano di grande esperienza, il mio maestro di vela Keith Riley e su una barca, la sua, il Kinetic, che per mesi ha meticolosamente preparato per la navigazione oceanica.
L'arrivo a Sint Maarten (Antille Olandesi) il 24 dicembre 2020

   Detto ciò ci vuole ovviamente una piccola dose di incoscienza e la consapevolezza di accettare imprevisti e rischi che una navigazione di oltre 3 mila miglia comporta inevitabilmente. La preparazione è essenziale, ma ovviamente non serve a garantire un successo assoluto. Alla fine ci si improvvisa, ci si arrangia, ci si inventa per sopravvivere al meglio. Ed è qui che l’esperienza di un bravo marinaio entra in gioco.
   Prima di partire ho consultato un po’ di letteratura sull’argomento, tra cui Your First Atlantic Crossing di un certo Les Weatheriff, un manuale della traversata, che però è servito più che altro ad aumentare la mia paura. Non ho vergogna ad ammetterlo, ma quando siamo salpati dal porticciolo di Mogan, nel sud di Gran Canaria, mi sono chiesta onestamente se mai un giorno sarei ritornata a terra a a rivedere la mia amata barca che ho lasciato li' ormeggiata. E invece eccomi qui a scrivere dell’avventura, ancora incredula che abbia avuto il coraggio di fare una simile impresa.

   Non ho tenuto un diario perché non avevo tempo e anche perché era quasi impossibile scrivere per via del continuo rollio. Sembra incredibile, ma in 25 giorni di navigazione, oltre a timonare, cucinare e dormire non rimaneva altro tempo libero. Ci sono state alcune circostanze, tra cui un meteo particolarmente instabile e la rottura del windvane, pilota a vento, che forse hanno reso la traversata più faticosa del normale. Tra le varie traversate oceaniche, quella atlantica è considerata quella più facile. Me lo avevano detto in tanti, “issi le vele, memorizzi la rotta nel pilota automatico e per due o tre settimane non fai piu’ nulla. La prima manovra sarà gettare l’ancora nelle acque cristalline dei Caraibi”. Gli alisei ti spingono verso i Caraibi come un “tapis roulant”. Altri marinai  “navigati’ mi avevano parlato di giorni di noiose bonacce e mi avevano persino raccomandato di portarsi taniche di gasolio di scorta nel caso fosse necessario avanzare con il motore. Nulla di tutto ciò…almeno nella nostra traversata.
Quindi voglio qui sfatare alcuni miti sulla traversata Atlantica

La rotta ideale non esiste
   Kinetic è una barca in ferro di 11 metri, non da regata, ma molto solida. Pare nella sua lunga vita abbia resistito anche all’urto con un container, il terrore di ogni marinaio. A parte il capitano Keith e la sottoscritta, l’equipaggio era composto da Frank e Cecile, entrambi quasi trentenni, quindi molto più giovani ma con poca o nulla esperienza velistica. Quindi eravamo in quattro che è un numero ideale per una barca di quelle dimensioni e sufficiente per fare turni di guardia non massacranti, 6+6 ore di giorno e 4+4+4 ore di notte.
La partenza è stata il 30 novembre da Puerto de Mogan e l’arrivo il 24 dicembre a Simpson Bay (Sint Maarten, Antille Olandesi) per un totale di 3.200 miglia marine (secondo il GPS). Quindi 25 giorni di navigazione no stop. La rotta seguita è stata SW per una settimana e poi W (270 gradi) facendo bordi SW e NW tra i paralleli 18-19-20. In pratica abbiamo tracciato un arco da Est a Ovest. Si sa che la rotta seguita è quella ortodroma (il “great circle” come dicono gli inglesi) che consiste di andare da un punto all’altro della dimensione terrestre percorrendo la distanza più breve. Se avessimo tracciato una linea retta (lossodromica) sulla carta nautica e seguito la bussola costantemente avremmo percorso più miglia. È geometria e penso lo sapesse anche Cristoforo Colombo che nel 1492 seguì la stessa rotta dalle Canarie, che si chiamavano all’epoca isole Fortunate, a quella che lui credeva l’Asia. Il navigatore genovese ci mise 35 giorni per vedere terra, noi ci abbiamo messo dieci giorni di meno. Un catamarano sportivo, di quelli che partecipano alla regata della Arc (Las Palmas –Santa Lucia) ci mette una decina di giorni.
Tutto sommato siamo stati nella media, forse zigzagando abbiamo allungato un po’. Ho letto nel sito ufficiale della Arc che la regata è di circa 2.700 miglia. Sul GPS del Kinetic quando siamo arrivati erano 3.200 MN.
La scelta della rotta dipende dalle condizioni meteo e in particolare dai venti alisei. Si dice che più si va a Sud e più si ha la probabilità di trovare i tradewinds (con il corretto angolo). Il manuale citato sopra di Les Wheateritt cita come esempio di rotta la “Milk Run”, la rotta del lattaio, detta cosi' perché sembra essere particolarmente facile, come consegnare il latte fresco ogni giorno. Se ho ben capito, da una figura che compare nel libro, la rotta scende molto a sud, fino a livello dell’arcipelago di Capoverde prima di mettere la prua a West.
Infatti la tappa a Capoverde è abbastanza comune per chi vuole attraversare l’oceano, non solo perché consente di tirare il fiato dopo 900 miglia e di fare rifornimenti, ma perché si hanno più possibilità di trovare gli alisei.

Gli alisei, una caccia al tesoro
   I trade winds o alisei sono venti portanti che nei secoli hanno permesso i commerci mondiali e le esplorazioni geografiche. Sono venti costanti che sull’Atlantico spirano da NE e sono in genere accompagnati da una forte corrente che va nella stessa direzione. Sull’Atlantico centrale sono presenti tutto l’anno perché sono la parte inferiore del grande anticiclone delle Azzorre. A partire dal mese di novembre e durante tutto l’inverno sono più stabili. Dicono. Appunto “dicono”.
Nella mia traversata purtroppo non c’è stata traccia di questi famosi e portentosi venti. C’era una alta pressione costante, con venti costanti da NE ma nulla a che vedere con le “autostrade” del mare di cui si parla. Nella prima parte della traversata abbiamo avuto una presenza di masse d’aria instabili che creavano forti raffiche e un moto ondoso disordinato. Mi aspettavo le lunghe onde oceaniche, invece ci sono sempre state onde corte e irregolari causate da brevi e continui temporali a volte con pioggia, a volte solo con forte vento che passava dai 20 ai 30-35 nodi. Non si faceva in tempo a levare un terzarolo che spuntavano i nuvoloni neri da poppa e nel giro di 20 minuti eravamo costretti di nuovo a terzarolare. Per diversi giorni abbiamo tenuto tre mani di terzaroli e il genoa ridotto. Un giorno si sbandava così tanto che abbiamo deciso per sicurezza di ammainare la randa.
Se le previsioni meteo che ci arrivavano dai files GRIB della radio SSB indicavano F4 dovevamo aspettarci un F5, sempre di più di quello che si vedevano sulle carte sinottiche. Il che mandava in bestia il povero Keith che a un certo punto ha smesso anche di richiederle alla sua rete di radioamatori, anche per la difficoltà di contattare le stazioni a terra.
Pare che gli alisei siano accompagnati da una serie di nuvolette a “ricciolo” una dietro l’altra. Mai viste, se non nelle ultime mille miglia, ma molto lontane dalla nostra rotta.
Insomma la ricerca degli alisei è stata vana a tal punto che abbiamo perfino dubitato della loro esistenza. “E se fosse una leggenda marinara?” scherzavamo ogni volta ci sembrava di vedere i “riccioli”, ma poi all’orizzonte comparivano i nuvoloni neri che preannunciavano in poco tempo l’arrivo dell’ennesimo temporale. 
Eppure ci sono, e ne ho avuto la prova. Un giorno solo, durante la traversata da Gibilterra alle Canarie nell'ottobre 2018, ho avuto la fortuna di navigare con gli alisei. Ed è una sensazione che non si scorda facilmente. Non solo perché senti una forza possente da sotto e da dietro che spinge la barca mantenendola stabile senza l’inevitabile rollio delle andature a lasco. Ma si ha la sensazione che anche il vento sia diverso dagli altri. Forse è stata la mia immaginazione ma l’aria era più calda e più umida, come un alito che proveniva dal mare. Che gli alisei siano il respiro dell’oceano? L’aria era quasi profumata. Stavo timonando nel mio turno notturno e ho respirato a pieni polmoni una moltitudine di odori che sembravano sapere di spezie, tabacco, caffè, cacao e tutte le mercanzie trasportate dai galeoni in secoli e secoli di commerci via mare. Fantasticherie frutto di troppe letture? Può darsi, ma a me piace pensare che davvero gli alisei siano il respiro degli oceani e che su questo soffio caldo ci muoviamo noi e le nostre barche.
Nelle lunghe notti della traversata, mi piaceva timonare adeguando il mio respiro al ritmo delle onde. Non so se esiste già, ma potrei avere inventato il “sailing yoga”.

Inevitabilmente si rompe qualcosa.

   Lo sforzo a cui è sottoposto un veliero durante una traversata di oltre 3 mila miglia marine è enorme. Molte barche nemmeno in un anno percorrono la stessa distanza. È quindi molto probabile che si rompa qualcosa, anche se la preparazione è stata accurata. È quindi importante avere una buona scorta di ricambi a bordo e soprattutto strumenti di lavoro. Il Kinetic è una ferramenta galleggiante e il suo proprietario Keith ha preferito sacrificare la comodità per fare spazio a utensili di ogni tipo, colle e vari prodotti per il fai-da-te.
Quindi siamo riusciti a riparare la ruota del timone che si stava per staccare per via delle straorzate nelle frequenti raffiche, smontando la torretta della bussola nel pozzetto. Quando avevamo il genoa tangonato, si è scardinato il carrello della scotta del fiocco a tribordo e si è alzato a 90 gradi. Poi una notte si è staccato l’amantiglio, non mi capacito ancora come sia stato potuto succedere, ed è “volato” a prua arrotolandosi con più giri intorno allo strallo.
Ma il guaio più grave è stata la rottura del windvane, del pilota a vento, che ci ha obbligati a timonare per tutto il tempo con un dispendio di energie per l’equipaggio e una usura eccessiva per gli ingranaggi della ruota. In un primo momento Keith aveva pensato di fare rotta su Capoverde per ripararlo o sostituirlo ma poi ha deciso di proseguire per i Caraibi. “È una ottima occasione per imparare a timonare” ci ha detto facendoci capire che per lui noi rimanevamo i suoi studenti anche nella traversata.

L’equipaggio

   Pare che la maggiore difficoltà nelle lunghe traversate sia proprio la gestione dell’equipaggio. Quando il cibo e l’acqua dolce scarseggiano o il sonno è disturbato dal rollio o dalle manovre in coperta cala in maniera inversamente proporzionale il livello di sopportazione verso i compagni. Il capitano deve quindi avere una capacità, a volte sovrumana, lo riconosco, di evitare che gli attriti degenerino e rendano la coabitazione ancora più difficile. La turnazione tra noi quattro sul Kinetic era a coppie di due turni di sei ore di giorno (da 6 alle 12, e dalle 12 alle 18) e tre di quattro ore di notte (da 18 a 22, da 22 alle 2 e dalle 2 alle 6). Mano a mano che si avanzava verso Est i turni si allungavano di 15 minuti per compensare la differenza di fuso orario (+ 5 ore dalle Canarie alla parte olandese di Sint Marteen). I turni sono sempre stati gli stessi, il capitano Keith con la più inesperta Cecile e io con Frank, il più coraggioso e “muscoloso’ del gruppo, essendo un ex marine della British Royal Force. 
Alla fine dei 25 giorni Cecile era diventata la più brava a timonare grazie alla full immersion con il maestro. Il mio turno invece era quello più “movimentato”, un po’ per la nostra inesperienza e un po’ per l’esuberanza di Frank, che dopo il congedo è diventato un motociclista professionista, uno abituato a correre ai 250 all’ora e non ai 15 km orari della nostra barca. Il nostro turno era anche quello della pesca al traino, che per la maggior parte dei giorni era abbastanza difficile per via dei temporali. Solo al ventesimo giorno siamo riusciti a pescare un dorado, bellissimo pesce degno del suo nome, sicuramente più bello che gustoso, molto comune negli oceani. Dato i turni fissi, la mia traversata è stata in sostanza una coabitazione di 25 giorni, a volte divertente, a volte tesa, con il mio compagno Frank. 
Gli unici momenti in cui eravamo tutte e quattro insieme era all’appuntamento della cena alle 18, prima del cambio di turno, era l’occasione per scambiarci informazioni su quello successo nei rispettivi turni, fare il punto sulla rotta e sulla meteo e ricevere le istruzioni da Keith.
Mi sarebbe piaciuto fotocopiare il ‘log book’, il giornale di bordo, che compilavano ogni ora con l’indicazione delle miglia percorse, posizione, rotta, direzione e forza del vento, pressione barometrica, visibilità e uno spazio per i commenti. Proprio qui trovavano spazio gli sfoghi più svariati e considerazioni sulle condizioni del cielo, stelle cadenti, avvistamenti di altre imbarcazioni o semplici delfini. Un pomeriggio ebbi la fortuna di vedere una balenottera, è stato l’unico avvistamento di un cetaceo.

Sul rischio di collisione
   In 25 giorni ci è capitato di vedere soltanto una decina di imbarcazioni, la maggior parte cargo. Per una intera settimana abbiamo navigato soli, o per lo meno così ci è sembrato. Eppure soprattutto durante i turni di notte scrutavamo a lungo l’orizzonte o quando non c’era - perché era nuvoloso - cercavamo qualche segno di vita nella spessa coltre nera che copriva cielo e mare. Non abbiamo mai usato il radar o anche soltanto l’Ais perché avevamo quasi sempre poca carica nelle batterie alimentate dai panelli solari. Ma in effetti non ce ne era bisogno. I turni di due persone garantivano una buona guardia. L’imbarcazione che ci è venuta più vicina e che a un certo punto addirittura si trovava in collisione è stato un veliero con le vele issate ma con il fanale in testa d’albero acceso, la steaming light, quindi era anche a motore. In realtà’ anche la posizione dei fanali di direzione era un po’ anomala. Si è pensato che fosse un veliero d’epoca. A un certo punto abbiamo visto che ha deviato la rotta, il Kinetic aveva la precedenza in quanto avanzava solo con le vele.
Non conosco le statistiche sulle collisioni durante una traversata oceanica di 3 mila miglia, mi sembra una eventualità estremamente remota. Appena una settimana prima della nostra partenza, circa 300 velieri erano salpati da Las Palmas (capitale Gran Canaria) per la Arc, l’annuale regata atlantica che si conclude a Santa Lucia. Tra novembre e dicembre centinaia di barche a vela vanno a svernare ai Caraibi per poi tornare nel Mediterraneo a primavera. Quindi in teoria c’è del traffico, ma la vastità dell’oceano è immensa, incrociare qualcuno altro è quasi come trovare un ago in un pagliaio. Ma quando capita si vorrebbe cercare un contatto, anche solo per un saluto, prima che quella luce o quel ‘puntino’ scompaia di nuovo dietro il sipario delle onde o inghiottito dal buio.

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